Violenze in carcere, teste al processo: “Picchiato malgrado il busto”

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“Avevo il busto per gravi problemi alla schiena, dissi che non ne potevo fare a meno, un agente lo ripetè a un collega che mì colpì con un sulla schiena, quindi fui preso a schiaffi, passando da un agente all'altro come una pallina di ping pong nel corridoio”. E' stato il giorno di Emilio Lavoretano, che sta scontando la pena definitiva a 27 anni per l'omicidio della moglie Katia Tondi – uccisa il 20 luglio 2013 – al per i pestaggi in commessi il 6 aprile 2020 dagli agenti penitenziari nel carcere di (Caserta).

Un processo che vede imputate davanti al collegio di Corte d'Assise del tribunale sammaritano 105 persone tra agenti, funzionari del Dap e medici dell'Asl. Lavoretano, costituitosi parte civile, era al Nilo quando iniziò la perquisizione, anticipata “dall'improvvisa mancanza di segnale della tv in cella e dalle urla che provenivano dai piani bassi” del reparto detentivo.

Lavoretano, sottoposto all'esame del pubblico ministero Alessandra Pinto, racconta che il 6 aprile entrarono nella sua cella “agenti con manganelli da me non riconosciuti perché avevano il volto coperto da caschi e bandana”. Afferma che “il carcere fu preso in mano da agenti esterni che non conoscevamo, ci dissero che erano di Secondigliano, anche i giorni successivi ai fatti, mentre quelli in servizio in carcere sembravano inermi, non potevano fare nulla, qualcuno – riconosciuto poi nell'imputato Biagio Braccio – era avvilito e cercò di darci anche dei consigli, un altro, una brava persona, provò ad aiutarmi (l'imputato Paolo Buro, ndr)”.



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