Padovano: “Dalla Champions al carcere, mi hanno tolto 17 anni di vita”

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Nella Juventus ha giocato due anni, dal 1995 al 1997, in mezzo il trionfo in Champions League. E in quel successo Michele Padovano ci ha messo la firma segnando al Real Madrid e poi dal dischetto nella finale di Roma contro l’Ajax.

Momenti felici, poi, a carriera finita, anni difficilissimi con una vicenda processuale che lo ha visto finire in carcere per tre mesi e che si è chiusa, dopo 17 lunghissimi anni, con l’assoluzione della Corte di Appello di Torino dall’accusa di aver finanziato un traffico di droga dal Marocco.

Padovano al Corriere: “Giustizia lenta, ma non ho mai smesso di crederci”

“Diciassette anni sono una vita. La giustizia è stata lenta, ma non ho mai smesso di crederci. E oggi voglio dedicare questo risultato a mia moglie e a mio figlio, che mi hanno accompagnato in questa battaglia. Devo tutto a loro e ai miei avvocati, Michele Galasso e Giacomo Francini, spiega l’ex attaccante in un’intervista al Corriere della Sera.

“Sono stati anni difficilissimi e in alcuni momenti ho avuto il timore di non farcela. In cuor mio sapevo di non aver fatto ciò di cui ero accusato, ma ho anche dubitato di poterlo dimostrare. La prima volta i giudici non mi hanno creduto e quella condanna a 8 anni è stata un colpo al cuore”, spiega Padovano.

“Quando sono venuti ad arrestarmi ho pensato che fosse uno scherzo. Non riuscivo a crederci. La mia famiglia è stata distrutta, ma insieme abbiamo trovato la forza di reagire. Ho perso il lavoro e ho dovuto dire addio al calcio, la mia vita”.

    L’ex calciatore racconta di aver trovato “tante porte chiuse. Ho perso tutto quello che avevo: proprietà, soldi, fama. Cercavo lavoro e a parole erano tutti gentili e collaborativi, ma nei loro occhi leggevo il pregiudizio. Molti si spacciavano per amici, ma non lo erano”.

    “Vialli e Presicci due che hanno continuato a credere in me, sempre”

    “Sono stato tre mesi in carcere. I primi dieci giorni a Cuneo: non potevo parlare con nessuno e nemmeno farmi una doccia. Sembrava avessero arrestato Pablo Escobar. Poi mi trasferirono a Bergamo e lì incontrai una grande umanità. All’inizio pensavo fossero gentili perché ero Padovano. Invece lo erano con tutti”.

    “Gli altri detenuti hanno capito subito che quello non era il mio posto. Ero spaesato e il mio compagno di cella mi ha aiutato molto. Ancora oggi ci scambiamo qualche messaggio”. Due persone gli sono sempre state vicine: “In due hanno continuato a credere in me: Gianluca Vialli e Gianluca Presicci“.

    “Quando mi hanno arrestato, Vialli chiamava tutti i giorni mia moglie. Era una persona e un amico, so che oggi sarebbe felice per me. Mi manca molto. Questa storia mi ha insegnato i veri valori della vita: stare in famiglia, prendersi cura delle persone a cui vuoi bene, coltivare rapporti sinceri. Voglio tornare a vivere, senza recriminare sul passato. Adesso è il momento del riscatto”.

    “La mia vita – prosegue – è racchiusa in un pallone, certe passioni sono stampate nel Dna. Rinunciare è stato difficile: ci sono ancora molte cose che voglio fare e il calcio è il mio mondo. Sto lavorando a un progetto legato alla gestione dei rapporti tra squadre e calciatori”.

    Ha affrontato il calvario giudiziario per colpa di un prestito a un amico d’infanzia. “Ci conosciamo da quando eravamo bambini. E non rinnego la nostra amicizia: l’ho detto anche in Tribunale. Lui con me si è sempre comportato bene ha sempre detto che non c’entravo nulla. Ma non hanno creduto a me e neanche a lui”.

    L’assoluzione gli restituisce “dignità, fiducia, speranza per il futuro. Non ho mai mollato, non l’ho mai fatto sul campo e nella vita. E non ho mollato neanche in Tribunale: non bisogna mai arrendersi”.

    Padovano racconta i 17 anni di tormenti anche in un’intervista a “La Repubblica” e li riassume in una sola parola: “Solitudine”. La forza di andare avanti (“Se non ti ammali e non impazzisci è un miracolo”) è arrivata anche grazie al calcio: “Se essere un campione mi ha aiutato a combattere? Beh, la mentalità è quella”.

    Conclude così: “Come mi sento adesso? Felice come non mai e stordito, fuso, la botta di adrenalina è stata troppo potente. La paura del futuro è comunque meno grande della forza di rimettermi in gioco, zero a zero e palla al centro. Ma se la date a Padovano, quella palla, lui farà gol”.



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