Ai Giardini Ravino di Forio la mostra di Felice Meo

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La mostra del noto artista raccontata dal giornalista Ciro Cenatiempo.

Mettiamola così. Ho fatto una figuraccia. Sono arrivato trafelato ai Giardini Ravino in ritardo, alle 22, quando lo speech inaugurale si era già compiuto, e si era entrati nel mood di un party estivo stracolmo. Molto made in Naples vecchi tempi. Un successone. E però, salutando tutti – anche chi non ho associato a un nome! – ho salito le scalette mediterranee e ho visto una folla d’aperitivo. Si stava sulla postazione alta, sulla tolda nel bel mezzo dell’atollo salottiero che guarda la marea botanica delle piante succulente.

Fu ideata 22 anni fa dal capitano Giuseppe D’Ambra come un inno alla circumnavigazione del globo. Distratto, non mi sono manco accorto dove fosse Felice Meo, l’autore in gloria della soirée. E ho chiesto confuso: «Ma la mostra dov’è?». «Ma da dove sei venuto? Sta giù…», ha risposto incrociando i miei occhi Mariangela Catuogno. Per inciso Mariangela da archeologa e classicista ha messo su, con uno sforzo encomiabile e senza sfarzo o gualdrappe, la mostra «Hippoi» (si legge «Ippi», ricorda mia figlia che parla Greco moderno), declinando l’eleganza di fini Cavalli famosi, fantastici e reali attraverso l’interpretazione di Felice Meo.

    Quadrupedi simbolici, mitici, intrecciati con filologico rigore e coerenza a un’epica millenaria si presentano installati e affiancati da canonici roll-up banner e didascalie minute come francobolli. Non era semplice raccogliere il testimone di Elettra Carletti. Sono contento. La ri-nascita della «Stanza tematica», il posto della pittura e della scultura preannunciato da Chris D’Ambra m’appare poi, in tale contesto, come altro vento in poppa sulla rotta certa della Cultura. Torno all’inizio. «Ma dove, giù?», ho incalzato. «Giù verso il giardino sensoriale». La voce di Marisa mi ha raggiunto come un’eco lontana. «Okay, mi sono inzallanuto», e ho preso il percorso a ritroso.

    Pochi passi, ed eccoli, i Cavalli! Non di bronzo, con il broncio, e di certo nascosti all’occhio mio da persone fotografanti e parlanti in un capannello. O era “Le Capannelle”, per associazione d’idee? (questa è difficile e più stupida del solito). «Che figuraccia», ho ripensato. Non li avevo proprio visti. E dai! Poi, ho capito: non potevo “vederli subito”, dall’ingresso. Gli equestri oggetti magici erano oscurati da uno spottone obliquo, un farone faraonico, più che un faretto, che proiettava una luce onnipotente e riflettente su quelle figure metalliche frutto del talento di Felice, l’uomo che brucia la fantasia con la fiamma ossidrica e l’incudine.

    La violenta illuminazione – necessaria forse per la sicurezza tipo Mind The Step – però sulla scena notturna creava ombre oscure, spiazzanti sui finimenti dei pezzi e sull’immaginazione, sui dettagli dei plastici animali di ferro riciclato e sull’argomentazione dell’itinerario. La mostra nel suo insieme mi era sparita sotto il naso, ancora prima di manifestarsi. Uaneme. Non mi sono scoraggiato: «Vuoi vedere che questo capovolgimento di percezione diventa utile?». E me lo sono fatto piacere.

    Dalla imbizzarrita cacofonia dei lumen esagerati, dalla scossa che mi aveva trasformato in fantino disarcionato, sono entrato in una passabile euforia. Ho lasciato la corsa al mio cavallo “scosso” affinché compisse il proprio Palio dell’Arte. Che giravolta faticosa e barocca, ma mi va così. «Oops, permesso», con piccole gomitate, ho preso possesso degli spazi davanti alle opere: ci tenevo a starmene muso a muso con loro.

    I tentativi di scattare delle foto decenti sono andati a farsi benedire, ma la materia era lì davanti a me, selvaggia e scalpitante, curva; affrancata dalle obbligazioni teoriche, che sono esemplari per tracciare un tema coerente e potente, e che però le intuizioni dello scultore hanno fagocitato allo starter. A Felice Meo puoi provare a mettere briglie tematiche. Ne enumero diverse.

    Uno, omeriche ad esempio, con l’ipotesi del ricordo della scuderia privata del semidio Achille: a proposito, «quello a quattro zampe» di Troia era una barca, o no?. Due, garibaldine, evocando «Marsala», la “grigia” sulla quale si fece immortalare, anzianotto, il Generale duomondista. Oppure, tre, alessandromagne, per l’omaggio al coraggioso «Bucefalo» che non aveva uguali… passando dalla rappresentazione di «Incitatus», il “console” di Caligola; fino al volatile «Pegaso».

    Ma l’artista-Meo ti galoppa assai oltre, sbaraglia ogni iconografia, aggrappato ingobbito alle criniere, alle chimere, alle levigazioni, alle rughe allisciate, alle saldature come merletti, alle bollenti curvature da maniscalco che lo vedono strappare schegge dure all’abbandono in discarica e al rifiuto, rendendole malleabili. Nobilitazione post-industriale ed ecologia in nuce stanno nella testa di Felice dagli albori. E con la complicità del posto, Ravino, e l’intrigo con la Natura del luogo, si rafforzano. Era avvertita, questa interazione benefica tra le spine, i cacti alti e bassi, e i salti di scarto, nei prolegomena dell’esposizione; epperò il “fatto creativo” s’è preso tutto.

    Accade ed esplode accarezzando la finitura del mantello a scaglie, a sbalzo – è una firma tecnica ormai consolidata di Felice – che è diventata la moderna livrea dei purosangue di Achille («Xantos» e «Balios»), ancora lui. Altrove, in passato, era il corpo di una sirena… Assorbe ultravioletti e parla la stessa lingua squadrata e irregolare delle pietre di sfondo dei muri a secco, le parracine che «fanno la casa» etimologicamente. Su di esse poggiano i legami con l’identità. Così, grazie a questa spontanea domesticità con il tufo verde foriano, Felice apre un dialogo intimo multisensoriale, che si dilaterà nei giorni a venire. E ci parla di una metamorfosi che accadrà. Intanto si sprigionano riconoscibili richiami.

    Qua e là, spunta un’appartenenza stilistica minimalista; un esercizio d’artigianato etnico; alcune oscillazioni verso il design d’interni; e tuffi in apnea nella biologia marina, addirittura, che vedo nelle indolenze autobiografiche da Ippocampo (la testa di «Marsala»), vibratile e sospeso, leggero e perfino ironico.

    La quinta del parco è vissuta dal selvatico di aromi e piperne, in un ginepraio di essenze. Davanti, invece, c’è lo stage e lo svelamento della missione più originale. A guidarla ci sarà la probabile ruggine che si formerà sulle figure come un ineluttabile preziosismo, un anticato ingioiellamento giocoso. È una sorta di stress-test di lunga durata.

    L’impolverata umidità – come il sudore sul mantello a fine corsa – donerà ai nove modelli messi in proscenio una patina traslucida che li deformerà un po’. Li manderà incontro allo stupefacente traguardo dei segni creativi che non si dimenticano perché variabili e stanno en plein air per pariare col mondo.

    La ruggine, la ruggine, la invoco come un ruggito, è questa la prova cavalleresca finale, la giostra che rullerà sulle mutazioni di colore, sulle corrosioni che ci costringeranno a tornare tra qualche anno alle opere di Felice Meo per toccarle, sperando che ci lascino una traccia tra le dita, un cortocircuito di vibrazioni sempre diverse. E il racconto potrà cominciare daccapo. Come epopea futura. È già una bella storia.



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