Hasta siempre Diego: Maradona morto nello stesso giorno del suo ‘secondo padre’ Fidel Castro

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E’ morto nello stesso giorno in cui 4 anni fa se ne era andato quello che considerava un “suo secondo padre” ovvero Fidel Castro.

‘E’ stato come un secondo padre. Mi ha aperto le porte di Cuba quando in Argentina molte cliniche non mi volevano.Ho avuto con lui un rapporto unico. Gli devo molto. Gli ho parlato della mia malattia, mi ha consigliato moltissimo”: Diego Armando Maradona, da Zagabria, lo disse il giorno della morte di Fidel Castro mentre stava assistendo alla finale di coppa Davis tra Croazia e Argentina, ai microfoni di TyC Sports. ”E’ stato una leggenda – disse Maradona – Ho avuto con lui un rapporto di amicizia unico che non credo abbiano avuto altri. Ora andrò a Cuba per salutare un amico”.

Una grande passione per lo sport, che lui stesso definiva un “diritto del popolo”: Fidel Castro amava in particolare il baseball e lo aveva praticato a lungo, tanto – si racconta – da sfiorare il professionismo; ma anche il pugilato e il calcio, in nome di una sincera amicizia con Diego Armando Maradona, un rapporto stretto di reciproca ammirazione.

La prima volta di Maradona a Cuba, ospite di Castro, fu nel 1987; da allora, i due non hanno più perso contatto. Fu a Cuba che Diego, nel periodo più buio della sua vita, alle prese con la dipendenza dalla cocaina, iniziò la sua disintossicazione recandosi nell’isola a più riprese.
Nel 2005, nel corso della sua trasmissione “La noche del 10”, Maradona intervistò Castro. “È il più grande della storia”, disse l’argentino di Fidel, che ricambiò con un “Sei il Che Guevara dello sport”. L’ex Pibe de oro, non a caso, si era fatto tatuare entrambi su un polpaccio e su una spalla.

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    Con il leader cubano, nel corso degli ultimi anni, i rapporti non si sono mai interrotti. Tra i due c’è stato anche uno scambio di lettere: una di queste fu resa pubblica da Maradona nel 2015 su richiesta di Castro, quando nel mondo s’infittiva il mistero sule condizioni del presidente e quel gesto poteva contribuire a frenare le voci che lo davano già per morto.”Fidel, negli anni di questa sincera e bella amicizia, ho imparato che la fedeltà non ha prezzo”, scriveva Maradona. Castro, in una missiva durante i Mondiali del 2014, gli confidò la propria ammirazione per Leo Messi (“formidabile atleta che porta gloria al nobile popolo dell’Argentina”), mentre, più politicamente, gli disse di non credere che “sia possibile un’educazione adeguata per i giovani di tutti i Paesi senza lo sport e, nel caso dei ragazzi, senza il calcio”.

    «Gracias por sua amistad, señor Comandante». Quella volta Diego si era messo dall’altra parte, dalla parte non dell’intervistato ma dell’intervistatore. La conversazione iniziò così, con un grazie, cosa rara per lui, poco generoso sugli omaggi, ma Castro era Castro, per Diego un idolo, a tal punto da farselo tatuare su una gamba. Era il 2005 e Maradona confezionò lo scoop per un programma di grande successo che allora conduceva su Canal 13, La Noche del 10. In realtà l’amistad, amicizia fra i due era cominciata molto prima di quel giorno in cui il Pibe intervistò il Lìder Maximo nel palazzo presidenziale dell’Havana, una lunga conversazione in cui si parlò molto poco di pallone e molto di altro: ordine sociale, imperialismo yankee, orgoglio latinoamericano. «Para mí, il Comandante è Dio» aveva detto Maradona giusto qualche tempo prima.

    Affinità di vedute, politiche ma non solo. Di certo un nemico comune, los americanos, ai quali Maradona non ha mai perdonato – fra le molte cose – quella che lui ha sempre definito la trappola dell’efedrina, quando fu cacciato dal Mondiale ’94 «perché non servivo più». Dopo l’intervista i due sui scambiarono un lungo abbraccio, «il più bello della mia vita» raccontò poi Diego, che non ha mai nascosto la sua ammirazione per la rivoluzione cubana. Sul braccio ha tatuato il volto di Che Guevara nella versione più iconica, quella del 1960 di Alberto Korda, «Guerrillero Heroico». Castro, che amava lo sport — il baseball, soprattutto, praticato in gioventù – e che attraverso i successi di alfieri della cubanidad come Alberto “El Caballo” Juantorena ha spesso scelto lo sport come veicolo di comunicazione, gli regalò un paio di guantoni da boxe appartenuti all’ex pugile Teófilo Stevenson, tre volte campione olimpico e gloria cubana. Fu quello senz’altro il momento mediaticamente più celebre di un rapporto iniziato ben prima, nel 1987. Lettere, regali fra cui un maglia autografata di Newell’s Old Boys, messaggi di stima e di amicizia. Uno è finito anche in un film, Maradona by Kusturica, 2008: in una scena l’ex fuoriclasse, chiaramente su di giri, si tuffa di notte in una piscina e saluta il vecchio amico con un coro da stadio.

    La verità è che molte volte a Cuba ci andò per disintossicarsi dalla droga, come nel gennaio del 2000, dopo aver rischiato la pelle per overdose di cocaina in una notte di follie a Punta del Este, in Uruguay. A invitarlo fu lo stesso Fidel, al quale Diego è sempre stato grato per il suoi aiuto. Senza di lui, ha ammesso più volte, non sarebbe uscito dal tunnel: «Io non dimentico». Il ricovero alla clinica La Pedrera, all’Avana, durò molte settimane, durante le quali gli incontri con Castro furono fittissimi. Tanto che nel 2015 il Lìder rese pubblico sul quotidiano del partito comunista di Cuba, Granma, un lungo carteggio con l’ex giocatore: la lettera inviata a Buenos Aires l’11 gennaio fu in qualche modo la prova dell’esistenza in vita di Castro in un periodo in cui si vociferava su un aggravamento delle sue condizioni di salute. «Se qualcosa ho imparato degli anni della nostra sincera e bella amicizia – gli scrisse Maradona nell’ultima, sentita missiva – è che la lealtà non ha prezzo, che un amico vale più di tutto l’oro del mondo, e che le idee non si negoziano».



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