Mihajlovic e la malattia, l’annuncio nel 2019

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E’ il 13 luglio del 2019 quando il suo annuncio scuote il mondo del calcio e non solo.

Sinisa Mihajolovic racconta commosso, tra le lacrime trattenute a stento, di avere la leucemia mieloide ad alto rischio: “È una malattia in fase acuta ma attaccabile, dobbiamo giocare per vincere, devo usare la tattica, so che vincerò”.

Costretto ad abbandonare temporaneamente la panchina del Bologna, inizia un percorso fatto di chemioterapia e cure – nel dipartimento di Ematologia del Sant’Orsola di Bologna – e di lotta per tornare il più presto possibile ad allenare in panchina, senza filtri. Senza i monitor montati per mesi nella stanza d’ospedale, le telecamere fisse sul campo a riportargli da remoto l’immagine ‘virtuale’ della sua squadra.



    Lotta per un’ambizione più concreta di quella boccata d’ossigeno che, il 25 agosto, lo porta a sedersi al suo posto, a sorpresa: “Ero più morto che vivo”, dirà poi Mihajilovic ricordando quella sera al Bentegodi contro il Verona, pallido, magro e con un cerotto a vista sul collo. L’ombra della tigre, ma pur sempre in campo.

    “Avevo fatto una promessa e l’ho mantenuta, anche perché quell’immagine non era di debolezza ma di forza”. Una forza incredibile, considerato che erano passati solo 40 giorni dall’annuncio della malattia. Il 29 ottobre arriva il trapianto di midollo da donatore non familiare, che gli restituisce la speranza. Il miglioramento, poi il rientro in panchina in pianta stabile.

    Quella stessa forza l’ha sempre mostrata anche in campo, da giocatore prima ancora che da tecnico. Nato a Vukovar il 20 febbraio del 1969, carattere e polemiche non lo hanno mai abbandonato, così come le liti, le discussioni, le proprie idee e opinioni sempre urlate in faccia al mondo, dal razzismo alla politica.

    Poi la malattia e “anche le tifoserie avversarie mi hanno applaudito: forse questa storia ha unito la gente, quando io sono sempre stato uno divisivo”, la sua confessione. In realtà fa discutere anche da malato, quando nell’estate del 2020 – un anno dopo l’annuncio di avere la leucemia – prende il Covid (ma resta asintomatico) durante una vacanza in Sardegna.

    Viene immortalato più volte senza mascherina, mentre passa da una cena a una partita a padel con altri vip. Lui replica: “Invidia e fango, dare sempre la colpa al lupo fa comodo alle pecore. Ma io non prendo lezioni da nessuno”. Il 26 marzo scorso una nuova conferenza stampa.

    Ancora Casteldebole, terra del Bologna, ma niente calcio. C’è ancora la malattia. Pochi minuti e poche parole per dire lo stretto necessario, un arrivederci e una promessa a chi lo ascolta.

    “Dovrò assentarmi per un ricovero ma tornerò presto con la squadra”, dice spiegando che “in questi anni la mia ripresa è stata ottima, ma nelle ultime analisi sono emersi dei campanelli d’allarme con il rischio che possa ripresentarsi la malattia. Devo intraprendere un percorso per giocare d’anticipo e non farla ripartire. Questa è la vita, è fatta di salite, curve e buche improvvise”.

    Anche in quell’occasione l’ondata di affetto è enorme. Mihajlovic sempre sotto i riflettori anche fuori dal campo, il mondo gli si stringe attorno. La sua ultima apparizione in panchina il 4 settembre scorso, il 2-2 del suo Bologna in casa dello Spezia. Due giorni dopo l’esonero, la fine della storia con i rossoblù iniziata il 28 gennaio 2019.

    Una decisione che gli lascia grande amarezza, al punto da spingerlo a dire “non sono un ipocrita, questo esonero non lo capisco. Lo accetto, come un professionista deve fare”. Bellissima – e tragica – la sua lettera affidata alla Gazzetta dello Sport per chiudere il capitolo e dire addio alla sua gente, a chi gli era stato vicino in oltre 1.300 giorni colorati di rossoblù.

    Decine di righe e un inciso in cui dice “sto bene, non mi sto più curando ma sto solo facendo controlli saltuari”. E il suo commiato era davvero una questione di calcio. “Non saluto solo una tifoseria che mi ha voluto bene e appoggiato in questi tre anni e mezzo ricchi di calcio e di vita, di lacrime di gioia e di dolore, di successi, cadute e ripartenze”, scriveva. Saluto dei fratelli e dei concittadini.

    La mia avventura a Bologna non è stata solo calcio, non è stata solo sport… E’ stata un’unione di anime, un camminare insieme dentro un tunnel buio per rivedere la luce. Ho sentito la stima per l’allenatore e quella per l’uomo. Il vostro calore mi ha scaldato nei momenti più difficili. Ho cercato di ripagare tutto questo affetto con il mio totale impegno e attaccamento alla maglia: non risparmiandomi mai sul campo o da un letto di ospedale”. Un testamento da brividi, a rileggerlo oggi, poco più di tre mesi dopo, scritto quando nulla faceva sospettare la fine oltre il calcio.



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