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Borsellino, la storia di un depistaggio lungo 30 anni

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Borsellino, la storia di un depistaggio lungo 30 anni

Indagini senza fine e tante aule di tribunale per una giustizia che resta incompiuta e per un depistaggio che dura da 30 anni.

Uno Stato che processa decine di boss e se stesso, e sul quale continuano ad addensarsi nebbie fitte sugli “ambienti esterni” che senza dubbio alcuno agirono e, c’è chi sostiene, agiscono ancora per tenere a freno la verità. E’ un fatto che trent’anni non sono bastati per individuare i responsabili di quello che è stato definito nella sua requisitoria dal procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca, “un depistaggio gigantesco e inaudito che ha coperto alleanze mafiose di alto livello”, strette nelle fasi di pianificazione, esecuzione e ‘copertura’ della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992.

Un depistaggio che, come ripete da tempo l’ex pg di Palermo Roberto Scarpinato, non si è concluso, ma continua. Il 12 luglio scorso il processo a tre poliziotti si è concluso con una assoluzione e due prescrizioni. Erano accusati di avere depistato le indagini successive alla strage di via D’Amelio. Sotto processo il funzionario Mario Bo e gli ispettori in pensione Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei.

Ribaudo è stato assolto perché il fatto non costituisce reato, per gli altri due il reato è stato prescritto. In aula, ad assistere alla lettura del dispositivo, anche due dei tre figli di Paolo Borsellino, Lucia e Manfredi. La procura aveva chiesto 11 anni e 10 mesi per Mario Bo e 9 anni e mezzo ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.

57 GIORNI DOPO

Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, pranzò a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si recò con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Erano le 16.58.

Cinquantasette giorni dopo l’attentato di Capaci che dilaniò Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. L’esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della città. L’autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l’agente Antonino Vullo.

PERSISTENTI ZONE D’OMBRA

Cassazione nella sentenza sul Borsellino quater depositata a novembre 2021, ha fatto riferimento alle “persistenti ‘zone d’ombra’ sulla vicenda della strage di via D’Amelio”, richiamando la “sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, le dichiarazioni di testi intervenuti nell’immediatezza della deflagrazione, dichiarazioni rivelatrici di contraddizioni che gli accertamenti svolti non hanno consentito di superare”, nonché “l’anomalia del coinvolgimento del Sisde nelle indagini” e i “condizionamenti esterni e interni” sull’inchiesta.

L’INTERESSE DI GRUPPI DI POTERE

La strage di via d’Amelio “rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto a una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa nostra, in quanto stretta da paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il ‘maxiprocesso'”: i “dati probatori relativi alle richiamate ‘zone d’ombra'”, ricordava la Suprema Corte ripercorrendo le sentenze di merito, “possono al più condurre a ipotizzare la presenza di altri soggetti o di gruppi di potere (co-)interessati all’eliminazione’ di Paolo Borsellino”, ma ciò “non esclude il riconoscimento della ‘paternità mafiosa’ dell’attentato di via D’Amelio e della sua riconducibilità alla ‘strategia stragista’ deliberata da Cosa Nostra, prima di tutto, come ‘risposta’ all’esito del maxiprocesso”.

Così resta l’amarezza per l’ultima sentenza sul depistaggio, un ulteriore colpo alla fiducia della famiglia Borsellino che si appresta a presentare appello attraverso il legale Fabio Trizzino: “Il depistaggio c’è stato”, afferma.

Tribunale “non ha accolto la nostra ricostruzione specie all’aggravante, ma il dato che vorrei evidenziare – ha aggiunto Trizzino – è che il dottore Bo e l’ispettore Mattei hanno commesso la calunnia. La prescrizione li salva perché i fatti sono risalenti a quasi trent’anni fa, l’elemento della calunnia rimane”. Una sentenza, comunque, “che non ci soddisfa”.

L’AGENDA ROSSA E AMBIENTI ESTERNI

Lia Sava, procuratore generale di Palermo, con una decennale esperienza a Caltanissetta dove ha indagato a lungo sugli eccidi del 1992 a Capaci e in via D’Amelio, elenca i pezzi ancora mancanti alla verità sulle stragi, via D’Amelio in particolare, di cui domani ricorre il trentennale: “L’agenda rossa di Borsellino sparita – ha detto ad AGI – e l”extraneus’ nel garage di via Villasevaglios, in cui fu caricato il tritolo nella 126 usata per l’attentato, e di cui parla Gaspare Spatuzza.
Elemento che si collega all’altro estraneo alle cosche, che sarebbe stato nel garage di Troia quando venne macinato il tritolo per la strage di Capaci. Cosa che però non vuol dire che ci siano stati mandanti esterni, perché Cosa nostra non si fa dettare nulla da nessuno. Noi infatti abbiamo sempre parlato di concorrenti esterni”.

L’INQUIETANTE SONDAGGIO

Poi l’aspetto più inquietante: la famosa “tastata di polso” di cui ha parlato Nino Giuffrè: “Fu il sondaggio in ambienti esterni alla mafia – aggiunge ancora l’alto magistrato – per decidere se procedere a quanto la commissione aveva deliberato già in precedenza, cioè di uccidere Falcone e Borsellino in caso di esito negativo del maxiprocesso in Cassazione. La tastata di polso ebbe esito favorevole, da quegli ambienti esterni e deviati arrivò il placet. E in questa direzione si continua a indagare, per individuarli: fermo restando che i processi non sono sociologia, ma si fanno raccogliendo elementi da portare in dibattimento e da trasformare in prove”.

Il tribunale di Caltanissetta nella sentenza del 12 luglio ha anche disposto la trasmissione degli atti alla procura per il falso pentito Scarantino per calunnia e falsa testimonianza e in ordine alle dichiarazioni rese da altri quattro poliziotti in quanto testi sospettati di falsità o reticenza. Una storia tragicamente senza fine.

Ma la Pg Sava assicura: “Sappiamo tanto delle stragi e non è una sconfitta continuare a indagare, a 30 anni di distanza. L’ansia di verità e giustizia e il desiderio di colmare i buchi neri, a 360 gradi, non sono solo dei familiari delle vittime, ma appartengono a un intero Paese. Sarà sempre fatto il massimo sforzo per arrivare a una verità il più possibile completa”.


Articolo pubblicato da Redazione il giorno 19 Luglio 2022 - 09:41

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