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Morto il boss ex Nco Marandino, esportò la camorra dalla Piana nell’isola d’Elba e in Kenya

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Napoli. E’ morto in carcere il boss Giovanni Marandino, 84 anni, detto Ninuccio, figura di spicco della criminalità organizzata campana. Nascose l’allora potentissimo boss della Nco Raffaele Cutolo quando evase dall’ospedale psichiatrico di Aversa. E come il capocamorra di Ottaviano è morto in carcere a Poggioreale, dove era ritornato a febbraio scorso per l’esecuzione di un’ordinanza del gip di Salerno, emessa su richiesta della Procura salernitana nell’ambito di un’indagine su presunti casi di usura. Marandino si è spento all’ospedale Cardarelli di Napoli, dove era stato portato per un peggioramento delle sue condizioni di salute.

Il garante dei detenuti, Samuele Ciambriello ha parlato di accanimento giudiziario: “Era malato, c’è stato un accanimento giudiziario. Non era più in grado di intendere e volere”.

Una vita passata tra omicidi, affari loschi legati all’usura, lutti e carcere quella di Ninuccio Marandino. Considerato figura di spicco della criminalità organizzata campana e uno degli elementi di spicco della criminalità campana. Una vita di camorra che gli è costata anche l’uccisione del figlio primogenito, Vincenzo, ucciso nel 1986 in uno dei primi agguati nella guerra di camorra tra gli uomini della Nco di Raffaele Cutolo e i membri della Nuova Famiglia di Carmine Alfieri. Cinque anni più tardi, nel 1991 stessa sorte toccò anche al fratello Aurelio.

Alle sue spalle il boss lascia una scia di lutti e una lunga storia giudiziaria fatta di molte condanne che per oltre 60 anni non hanno fermato la ferocia e la baldanza del boss di Ponte Barizzo di Eboli e la sua storia criminale.

Negli anni ’80 era considerato il cassiere della Nco di Raffaele Cutolo, il boss che aveva nascosto dopo la clamorosa fuga dal manicomio giudiziale di Aversa negli anni ’70. Accusato di essere mandante di numerosi omicidi nella Piana del Sele, più volte tirato in ballo dai pentiti, negli anni ’90, era stato arrestato e inviato nel carcere di Porto Azzurro sull’isola d’Elba, una volta ottenuti gli arresti domiciliari, nel 1999, era rimasto a Portoferraio per ricominciare i suoi affari illeciti, insieme alla moglie e al figlio Emanuell, e ad un manipolo di sodali.

Una colonia della camorra camuffata da un’attività di compravendita di auto dietro la quale nascondeva estorsioni, prestiti ad usura e violenze, con vittime costrette a cedere le proprie abitazioni pur di salvarsi dalle violenze. Furono i magistrati della Dda di Firenze a mettere fine a quel confino dorato, nel 2006, quando emersero grossi movimenti di danaro sospetti. All’Elba Marandino aveva investito parte dei proventi della Nco, quelli affidatigli da Cutolo in qualità di cassiere del clan. Dalle intercettazioni di quell’inchiesta emerse la ferocia del boss e la camorra come la faceva Marandino e frasi come “a questo gli facciamo un cartocetto e lo gettiamo in una colonna di cemento, vedrai che bella colonna romana viene fuori”; oppure “guarda che io sono stato mandato al confino come Napoleone perché ho ammazzato un carabiniere” furono stampate nell’ordinanza cautelare della Dda fiorentina.

Marandino è passato dalla camorra cruenta degli omicidi a quella affaristica del danaro sporco, provento di usura e sopraffazione, riciclato in aziende di mozzarelle nella Piana del Sele ai villaggi turistici in Kenya. Nelle ultime inchieste che lo hanno riguardato la sua attività si era ristretta proprio all’usura, quella che lo ha portato in carcere a febbraio scorso. Il boss non era andato mai in pensione, nonostante fosse malato, e il suo nome faceva ancora tremare povere vittime finite nel suo giro di prestiti a strozzo.

Per il garante dei detenuti quella di Giovanni Marandino era una morte annunciata: detenuto nonostante non fosse più in grado di intendere e volere. Una morte in solitudine. “Marandino era una persona anziana con un passato con precedenti penali – ha dichiarato Samuele Ciambriello – ma questo giustifica il fatto che da febbraio di quest’anno sia stato fatto morire nell’assoluta solitudine, senza il conforto dei familiari, presso l’ospedale Cardarelli di Napoli. La tutela della salute, della vita e dell’età avanzata sono prioritarie rispetto alle misure cautelari? Io credo che sia questa la domanda da porci, non solo per umanità, che negli ultimi tempi pare sia diventata merce rara, ma anche per misurare l’efficienza e l’efficacia di un sistema penale e detentivo che rimuove ogni problema trincerandosi dietro a vincoli burocratici e un gioco a rimpiattino sulle diverse competenze”.

Ciambriello ricorda che “da mesi, più volte interpellato dai familiari, ho seguito il caso di Giovanni in carcere e sono andato domenica scorsa a trovarlo in ospedale al Cardarelli. Davanti a me un vecchio in fin di vita non in grado di intendere e volere. Tra l’altro in cella a Poggioreale era recentemente caduto, spezzandosi il femore. Non poteva nemmeno usufruire dell’ora d’aria e, considerate le sue patologie, gli era stato assegnato un piantone. Una persona anziana arrivata in carcere in autoambulanza ne esce nella bara. Questo è accanimento giudiziario”, conclude Ciambriello.

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