Petizione per la revisione del processo per l’omicidio delle bambine di Ponticelli

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Quaranta anni fa Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, due bambine di 7 e 10 anni, furono seviziate e uccise, e infine date alle fiamme.

Un delitto efferato e brutale, che sconvolse non solo Napoli ma l’Italia intera e che, dopo due mesi di indagini e tre anni di processi, vide condannati all’ergastolo Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo. I tre, appena maggiorenni all’epoca dei fatti, sostennero dal primo momento di essere innocenti.

Oggi, dopo aver scontato la pena, continuano a dichiararsi vittime di quello che potrebbe essere uno dei più clamorosi errori giudiziari del nostro paese.

Si tratta di un caso questo che ha attirato anche l’attenzione della Commissione parlamentare Antimafia che ha di recente sollevato parecchi dubbi sulle indagini svolte. Secondo l’analisi della Commissione, infatti, sulla vicenda potrebbe essere calata l’ombra della criminalità organizzata.

Dalle denunce dei tre imputati nei confronti delle forze dell’ordine all’arresto di alcuni testimoni sentiti a pochi giorni dal duplice omicidio, fino alle eventuali piste alternative che all’epoca dei fatti potrebbero essere state sottovalutate, sono troppe le cose che non tornano nella ricostruzione processuale.

    Il 2 luglio 1983, alle 19.30, si persero le tracce delle piccole Nunzia e Barbara. Il giorno dopo i corpicini vengono ritrovati carbonizzati, e inizia subito la ricerca dell’assassino.

    Vengono interrogati prima i piccoli amici delle vittime, a partire da una bambina di nome Silvana Sasso, 8 anni, che rivela che le piccole avevano un appuntamento davanti a un ristorante al confine del rione, “La Siesta”, con un tale Gino, possessore di una 500 scura, alto, biondo e con il volto lentigginoso, tanto da essere soprannominato “Tarzan tutte lentiggini”.

    Silvana è a conoscenza di questi dettagli perché anche lei era invitata all’appuntamento, non ci andò perché la nonna le impedì di uscire, salvandole la vita.

    Un’altra testimonianza fondamentale è quella di Antonella Mastrillo, 12 anni, altra amica delle vittime. Le vede davanti al ristorante “La Siesta” alle 19.30 salire a bordo di una 500 blu che poi corre via.

    Gli investigatori quindi hanno un identikit molto preciso del presunto assassino: un tale di nome Gino, alto, biondo, lentigginoso e possessore di una 500 blu. Allora le indagini iniziano a vertere sui giovani che frequentavano il rione, con l’aiuto in particolare di un ragazzo di nome Carmine Mastrillo.

    Disabile, senza una gamba, era solito frequentare la piazzetta dove giocavano le piccole e conosceva tutti gli abitanti del rione. I carabinieri lo usano come “Cicerone”.

    Tra i ragazzi che frequentano la piazzetta ci sono anche Giuseppe La Rocca, suo fratello Salvatore, e ogni tanto Luigi Schiavo. Non sono della zona, vengono da poco lontano, San Giorgio a Cremano, ma frequentavano il rione perché lì avevano le fidanzatine.

    Vengono sentiti per tutta l’estate come testimoni, ma loro, come tanti altri, raccontano che gli interrogatori sarebbero stati particolarmente violenti, sia dal punto di vista fisico che psicologico, tanto da dubitare in certi casi della loro veridicità.

    Dopo due mesi, e 3 diversi magistrati che nel corso dell’estate si sono passati di mano le indagini, il 1 settembre le prende incarico il giudice Arcibaldo Miller. I ragazzi, il supertestimone Carmine Mastrillo e altri verrebbero chiusi nella caserma Pastrengo di Napoli, interrogati a più non posso, e arrestati per reticenza.

    Il 3 settembre mattina, dopo un improprio incontro con il pentito Mario Incarnato (in quel periodo la Caserma Pastrengo ospitava i pentiti di camorra, gli stessi che poi accusarono falsamente il conduttore Enzo Tortora), Carmine Mastrillo inizia a fare una serie di dichiarazioni, diverse e contraddittorie tra loro, fino a quando non accusa Giuseppe La Rocca, Luigi Schiavo e Ciro Imperante di aver commesso il delitto.

    Sostiene che avrebbero rapito, violentato e ucciso le bambine, poi si sarebbero fatti aiutare da Salvatore La Rocca, il fratello di Giuseppe, ad occultare i cadaveri. Il tutto, in un’ora scarsa. A cose fatte, avrebbero raggiunto Carmine Mastrillo in discoteca per raccontare tutto il delitto e minacciarlo se avesse rivelato qualcosa a qualcuno.

    Poco dopo, con parole molto simili, dopo aver sempre negato tutto, confessa Salvatore La Rocca di aver partecipato all’occultamento dei cadaveri delle piccoline. Solo che appena può, rivela di aver confessato “sotto le botte”, dice che la sua confessione sarebbe stata estorta con la tortura e che sarebbe tutto falso.

    Ma il pm Miller è convinto che siano loro i colpevoli, e li arresta. Vengono così presentati al Paese “I Mostri di Ponticelli“. E da lì è una valanga inarrestabile. I ragazzi hanno un alibi, ma chi viene a testimoniare a loro favore viene arrestato per reticenza o falsa testimonianza. Giovani testimoni, anche minorenni, passano mesi in carcere fino a quando non vengono costretti a ritrattare gli alibi. “Chi non veniva arrestato veniva minacciato”, raccontano i tre.

    Anche Carmine Mastrillo cercherà di ritrattare durante il processo. Un’ora e mezza di udienza in cui racconta che si era inventato tutto, che i tre non erano mai andati a confessare. Ma davanti all’ennesima minaccia di arresto del pm, il padre svenne, la madre gli urlò: “Figlio mio, dì la verità”. Ed ecco che sotto queste pressioni, anche lui si trova a confermare le sue dichiarazioni: “Sono stati loro”, sussurra alla fine in aula.

    Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo vengono condannati all’ergastolo. Hanno chiesto tre volte la revisione del processo, aiutati e supportati anche dall’ex Giudice Ferdinando Imposimato, che ha sempre lottato per la loro innocenza.

    Ma ogni richiesta di revisione è sempre stata rigettata. Persino l’ultima, nonostante un faldone di 1.400 pagine che apportava quasi 40 nuove testimonianze, ottenute grazie al lavoro dei consulenti Giacomo Morandi, investigatore, e Luisa D’Aniello, criminologa.

    Ad oggi hanno scontato 27 anni di carcere. Sono usciti nel 2010 ma continuano a chiedere la revisione del processo per togliere la “macchia” dal loro onore, e avere i propri nomi finalmente ripuliti.

    Non sarà ora, dopo tutte le storture emerse di questa vicenda, di dare finalmente giustizia alle piccole Nunzia e Barbara, e a Ciro, Giuseppe e Luigi? Non sarà ora di revisionare il processo che li ha condannati e marchiati come mostri? Se davvero qualcuno di voi pensa che le cose siano andate come le ha scritte la giustizia italiana potete continuare a fare la vostra vita.

    Se questo nostro lavoro vi ha fatto sorgere anche solo un ragionevole dubbio, fate sentire la vostra voce come potete, coi vostri mezzi. Voltarsi dall’altra parte non farà del nostro paese una comunità civile e degna.

    Il caso trattato da “Le Iene” in una puntata speciale



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