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Dai barconi al sogno della Serie A, le storie di Ndiaye e Karamoko

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Due storie parallele, il sogno di fuggire via dall'Africa e quello di provare a sfondare nel pallone. Chi ce l'ha fatta davvero e chi ha puntato sullo studio e sul lavoro, ma in comune Maissa Codou e Cherif hanno soprattutto il viaggio in mare con i barconi, il rischio di morire e la paura di non farcela. Stessa storia dei settemila che affollano l'hotspot di Lampedusa in questi giorni, in una situazione umanitaria sempre più critica e vicina al collasso.

“Mamma mia, ho visto le immagini, è una cosa tremenda quello che sta succedendo”, esclama Cherif al telefono. “Quando sono arrivato io non era così”, ricorda il centrocampista della Guinea francese. Dopo neanche un anno che era in Italia lo ha preso subito il Padova, con cui ha debuttato nel 2019 in serie B, poi l'Adriese in Serie D fino all'Union Cadoneghe, club dilettantistico veneto che gli permette di alternarsi tra lavoro (nel settore delle calzature infermieristiche) e studio, ha scritto anche un libro dal titolo ‘Salvati tu che hai un sogno'.

“Cosa penso della situazione di oggi a Lampedusa? Forse i libici li hanno liberati, sono tanti ragazzi che erano in prigione e li hanno liberati”, racconta. “Prima non era così, se ti beccavano le forze libiche ti mandavano indietro o ti mettevano in prigione”, spiega, raccontando il suo viaggio, dalla Guinea alla Libia, nove mesi, con l'aiuto del fratello che lavorava a el-Gatrun, a pochi chilometri da Tripoli, evitando la tortura ma non lo spiacevole esito una volta entrati in Libia: “I commercianti che ci trasportavano ci hanno venduti alle associazioni che poi ti mandano direttamente in carcere”.

Poi la liberazione e il viaggio in mare: “E' stato duro, anche se avessi un nemico non gli consiglierei mai di farlo. Sapevamo quanti ragazzi morivano in acqua, anche senza tv, sentivamo figli o fratelli spariti”, ricorda Cherif. Che oggi in un perfetto italiano racconta con orgoglio: “Già da piccolo avevo il sogno di giocare a calcio, i miei genitori non sapevano neanche cosa fosse. Appena arrivato in Italia mi sono subito inserito nel calcio, anche se la mia famiglia adottiva in Calabria mi ha sempre consigliato di studiare”.

E' durato molto meno il viaggio Maissa Codou Ndiaye, dal Senegal all'Italia in un solo mese, poi il passaggio a Lampedusa che oggi porta Maissa ad esclamare: “Ho letto in questi giorni la notizia che 7000 sono tutti lì, vogliono tutti un futuro migliore. Io sono riuscito a realizzare il mio sogno”, spiega dalla Serbia, dove ora gioca con la maglia dello Zleeznicar in prestito dalla Cremonese.

Il primo approdo al calcio italiano all'Afro United, poi la Roma (U18 e Primavera con Alberto De Rossi prima della Cremonese): “Se la situazione è al collasso la colpa è di tutti – dice Maissa – Il viaggio in mare? Non era facile. Ho visto molte persone che non avevano mai fatto neanche un bagno al mare prendere quel barcone. Libia-Italia, il mio viaggio è durato circa 24 ore, e siamo stati fortunati perché quando siamo arrivati non eravamo così tanti e ci hanno subito accolti”.

Anche per Maissa, l'Italia era il sogno con l'obiettivo “solo di giocare a calcio, l'Italia è stato sempre un sogno da quando ero bambino, anche se mi sono sempre ispirato a Sergio Ramos”. Anche in Serbia arrivano le immagini dei barconi e di Lampedusa al collasso, e ogni frame è un ricordo per Maissa: “Se continuiamo così questa situazione non si fermerà mai. Il problema non dipende da noi, dipende dai governi, quelli dell'Africa e dell'Europa. Lì non c'è lavoro, nulla, è normale partire quando il desiderio supera la paura. Non pensi più alla morte. Io ero disposto a tutto, ma non pensavo alla morte. Ero solo focalizzato sul mio destino. Trovare la palla e giocare”. Chissà, un giorno magari in Serie A.


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