Magistratura democratica: ‘Caso Franco, anatomia di una montatura’

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«Una condanna a priori. E’ finito tutto in mano ad un plotone di esecuzione.»; «Subito una commissione di inchiesta»; «Giustizia fuori controllo»; «Sempre più difficile non diffidare della magistratura».

Questi sono solo alcuni dei titoli dei giornali del 1 luglio all’indomani dell’ascolto, in una trasmissione televisiva, dell’audio di una telefonata intercorsa tra Silvio Berlusconi e il giudice Amedeo Franco, morto un anno fa e componente della Sezione della Corte di cassazione che nel 2013 rigettò il ricorso di Silvio Berlusconi confermando la sua condanna per frode fiscale.

Sulla base di questa “prova” – l’ennesima pistola fumante ad uso di lettori ritenuti sprovveduti – bisognerebbe mandare al macero la sentenza del giudice di legittimità, essere certi che essa sarà smentita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e, soprattutto, riscrivere la storia del Paese alterata e sconvolta da una decisione che oggi si rivelerebbe “un golpe giudiziario”.

Artefice e strumento del complotto, voluto “dall’alto” e assecondato con spirito servile dai componenti del collegio sarebbe stata la Corte di cassazione.



    Il testo della telefonata

    I giornali riportano in questi termini il testo della telefonata intercorsa tra Silvio Berlusconi ed Amedeo Franco.

    Amedeo Franco: «Il presidente della repubblica (ndr. Giorgio Napolitano all’epoca) sa benissimo questa cosa..»
    Berlusconi: «Ma cosa sa il presidente…?»
    Franco: «Lo sa che è stata una porcheria (ndr.: la condanna di Berlusconi). Io ho detto a Lupo (ndr., presidente della Corte di cassazione) “Guarda, mi hanno coinvolto in questa faccenda maledetta…se avessi saputo…io mi sarei dimesso, mi sarei dato malato, sarei andato in ospedale perché non volevo essere coinvolto in ‘sta cosa, in ‘sto affare”. A questo punto (Lupo) ha cambiato discorso, non lo vogliono sentire…questa è la cosa che sento negli altri, fanno finta che non è successo . È destino, Berlusconi deve essere condannato a priori, è un mascalzone, questa è la realtà…»
    Franco: «Non tutti, ma la gran parte appena si sa che Coppi (ndr, Franco Coppi, avvocato di Berlusconi) l’ha difesa…”Ah, ecco, Coppi è stato corrotto!”, sono tutti corrotti quelli che hanno a che fare con lei. A mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia…abbiamo avuto il sospetto, diverse persone che mi condividevano, colleghi che non sono suoi supporti, suoi ammiratori politici, anzi sono avversari politici che però sono persone corrette, hanno avuto l’impressione che la vicenda sia stata guidata…»
    Berlusconi: «Dall’alto?»
    Franco: «…dall’alto! La vicenda processuale è molto strana, molte persone, anche in pensione, mi vengono a dire “certo là è stata fatta una porcheria perché che senso ha mandarla alla feriale (ndr, la sezione feriale della Cassazione)? Ci vuole un minimo di apertura mentale per capire una questione così delicata , va alla sezione competente, non va alla sezione dove stanno cinque che poi uno solo capisce. La sezione feriale è stata fatta con gli ultimi arrivati, ragazzini… è stata una decisione traumatizzante, ha avuto pressioni e così via. Ho detto: “Io questa sentenza non la scrivo, se volete posso firmare perché io faccio soltanto l’antefatto ma qua firmate tutti perché io da solo sennò non la firmo”…»
    Berlusconi: «…e loro erano determinatissimi, invece…»
    Franco: «Loro determinati…malafede, forse. malafede del presidente sicuramente…»
    Berlusconi: «La malafede del presidente c’è! Dicono che lui andava…»
    Franco: «…dalla procura di Milano perché c’è il figlio…I pregiudizi per forza che ci stavano…si poteva evitare che andasse a finire in mano a questo plotone d’esecuzione, come è capitato».
    Franco: «Dall’inizio sono sempre stato un suo ammiratore, tutti quanti, sono sempre stato…non dell’ultima ora, diciamo, anche se devo stare zitto perché in quell’ambiente è meglio non parlare. Questa cosa mi ha deluso profondamente perché ho trascorso tutta la mia vita in questo ambiente e mi ha fatto schifo, dico la verità… perché io allora facevo il concorso e continuavo a fare il professore universitario, non mi mettevo a fare il magistrato se questo è il modo di fare per…colpire le persone, gli avversari politici…io ho opinioni diverse della giustizia giuridica, quindi…vada a quel paese, va’».

    Le ragioni, ormai insondabili, del colloquio telefonico

    Non sappiamo che cosa o chi abbia spinto Amedeo Franco a fare una telefonata ad una persona condannata dopo aver attivamente partecipato ad una decisione collegiale di conferma della sua condanna. Né come e perché questo colloquio sia stato puntualmente registrato.

    In particolare ignoriamo le ragioni, nobili o meno che siano, che hanno indotto il magistrato a commettere un reato – la violazione del segreto della camera di consiglio – per confessare un’altra condotta illecita e cioè aver sottoscritto una decisione che personalmente considerava contraria alla legge e alla sua coscienza.

    E neppure sappiamo se la conversazione si sia svolta in un momento nel quale il magistrato era amareggiato per essere stato raggiunto, nel marzo del 2017, da una accusa di corruzione mossagli dalla Procura di Roma per aver esercitato, quando era già in pensione, una indebita pressione su di un giudice della Corte Suprema che aveva denunciato l’accaduto.

    La divulgazione di un colloquio telefonico risalente nel tempo, avvenuta “dopo” la morte del giudice Franco, sembra precludere ogni possibilità di accertamento al riguardo così come impedisce ogni ulteriore rivelazione, spiegazione, risposta, da parte sua ai molti interrogativi che le sue affermazioni sollevano.

    Chiunque conservi, pur nella attuale giungla, un minimo senso di pietas sarebbe tentato di dire “Parce sepulto” e di stendere un velo su una vicenda così ambigua.

    Ma la gigantesca speculazione che a partire da quella telefonata viene montata in questi giorni e l’onda di sospetti avanzata su ogni profilo del processo dinanzi alla Corte di cassazione, ci costringe a ragionare, questa volta si impietosamente, dei fatti ed a fare i conti con la loro tradizionale “testa dura”.

    Il Giudice

    Il primo “fatto” riguarda direttamente il giudice che ha emesso la sentenza: la Sezione feriale e non la III Sezione della Corte di cassazione normalmente competente per i reati fiscali.

    Come le statistiche confermano la Corte di cassazione è da sempre fortemente impegnata ad evitare che i termini di prescrizione dei reati maturino nell’arco di tempo del giudizio di legittimità.

    A questo scopo viene esercitato un attento controllo preventivo dei ricorsi attraverso gli “uffici esame preliminare” operanti in tutte le Sezioni che – nel valutare natura e grado di complessità dei ricorsi – effettuano anche un primo calcolo dei tempi di prescrizione dei reati oggetto del giudizio di legittimità.

    Naturalmente l’ultima parola sul decorso della prescrizione spetta al collegio giudicante ma la segnalazione dell’ufficio che per primo esamina il ricorso è estremamente rilevante ai fini della fissazione della data dell’udienza.

    Nel processo per frode fiscale riguardante Silvio Berlusconi è stata seguita questa prassi che peraltro – nel caso di incertezze o di particolari problemi giuridici concernenti il calcolo dei tempi di prescrizione – segue una regola di elementare cautela: l’opzione per una data dell’udienza di trattazione che sottragga con certezza il procedimento alla declaratoria di prescrizione.

    La Sezione feriale della Corte di cassazione non è stata dunque investita del processo come un giudice ad hoc, improvvisato o raccogliticcio, ma come il giudice predeterminato e perciò “naturale “ del processo individuato in conformità alle regole di organizzazione e di ordinario funzionamento della Corte.

    Solo la designazione della Sezione feriale infatti avrebbe consentito con certezza di scongiurare il rischio che il processo si concludesse con la formula “per essere il reato estinto per prescrizione” e giungesse – come almeno a parole tutti sempre auspicano – all’epilogo naturale di una pronuncia liberatoria per l’imputato o di conferma della condanna decisa dai giudici di merito.

    La sentenza

    Il secondo aspetto della vicenda riguarda direttamente la sentenza “sconfessata” telefonicamente da uno dei suoi autori.

    In un ordinamento come quello italiano un giudice può essere – del tutto legittimamente – in dissenso con gli altri membri del collegio.

    Ciò non incide sulla validità della decisione assunta dal collegio per la quale non è prevista l’unanimità , ma non significa che il dissenziente sia privo di strumenti per lasciare agli atti traccia del suo dissenso o anche – quando sia relatore della causa – per far emergere all’esterno della camera di consiglio un segnale della sua posizione.

    La legge sulla responsabilità civile dei magistrati consente al giudice in disaccordo sulla decisione collegialmente adottata di redigere una scheda (conservata in un apposito archivio) nella quale illustra le ragioni del suo diverso convincimento al fine di sottrarsi ad una futura azione di responsabilità.

    Inoltre un giudice non può essere costretto a motivare una sentenza che non condivide e comunque potrebbe non essere “un buon campione” di tesi nelle quali non crede. Perciò il giudice relatore di una causa, che di regola è anche designato per redigere la motivazione, può legittimamente chiedere di essere esonerato da questo compito e di essere sostituito da uno dei giudici che hanno concorso ad adottare la soluzione che ha prevalso in camera di consiglio.

    Non risulta che il giudice Franco abbia redatto alcuna “scheda riservata” ai sensi della legge sulla responsabilità civile né che abbia rifiutato di apparire quanto meno come co-estensore della decisione adottata nel processo.

    La giurisprudenza

    Certamente meno lineare perché più complesso è il tema della conformità o meno della sentenza adottata alla giurisprudenza della Corte, anche perché nella telefonata non si va al di là di qualche frase smozzicata e allusiva.

    Sul punto non si può che rinviare ai precedenti della III Sezione della Corte di cassazione citati nella sentenza e alle argomentazioni svolte nell’attenta requisitoria del Procuratore generale. Organo, quest’ultimo, che dell’opera di nomofilachia della Corte è partecipe di pieno diritto e che – come sa chiunque minimamente conosca la Corte di cassazione – non ha mai mostrato alcuna remora a differenziare la sua posizione da quella degli uffici di procura operanti nei gradi di merito del giudizio.

    Del resto il principio di diritto secondo cui «è configurabile il concorso nel reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74 del 2000 di coloro che – pur essendo estranei e non rivestendo cariche nella società a cui si riferisce la dichiarazione fraudolenta – abbiano, in qualsivoglia modo, partecipato a creare il meccanismo fraudolento che ha consentito all’amministratore della società, sottoscrittore della dichiarazione fraudolenta, di avvalersi della documentazione fiscale fittizia» annovera numerosi precedenti (sent. n.14855 del 2011, n. 48498 del 2011, n. 5642 del 2012, n.19247 del 2012, n. 23229 del 2012, n. 19025 del 2013).

    Piuttosto ci si può ancora una volta chiedere perché il giudice più esperto e specializzato nella materia dei reati tributari , e cioè proprio Amedeo Franco, non abbia saputo o voluto differenziarsi da una decisione che gli appariva ingiusta e contraddittoria sacrificando, come si afferma nella telefonata, la fedeltà alla propria giurisprudenza.

    Resta il fatto che quando in una successiva sentenza – la n. 52452/2014 della III sezione – l’estensore Amedeo Franco scrisse che il caso esaminato era analogo a quello del processo nei confronti di Silvio Berlusconi nel quale però la decisione era stata diversa, il Presidente della Corte di cassazione intervenne con un suo comunicato chiarendo che si trattava di casi differenti e sottolineando l’ampiezza e la validità degli argomenti svolti nella decisione del processo Berlusconi riguardante le cd. frodi carosello.

    Sempre sul terreno della giurisprudenza la disinvoltura raggiunge il suo apice quando si afferma che una sentenza di primo grado del Tribunale civile nella causa intentata da Mediaset nei confronti di Frank Agrama avrebbe “ribaltato”, vanificandola, una sentenza definitiva della Corte di cassazione penale resa all’esito di tre gradi di giudizio.

    Strabiliante modo di ragionare capace di lasciare sbigottiti i lettori, giuristi o meno che siano, ma che non fa arretrare d’un passo gli sfrenati sostenitori del complotto, della congiura, della riscrittura della storia a partire da una telefonata e da una sentenza ritenuta di giovamento alla “causa” (intesa questa volta come finalità politica ultima).

    Qualche notazione di costume

    In questo breve scritto ci interessava solo mettere in fila alcuni fatti per far risaltare il contrasto tra la loro linearità (sempre difficile da spiegare quando si parla delle cose di giustizia che sono notoriamente complicate) e il clamore sollevato sulla base della rivelazione postuma di una telefonata.

    Dal modo in cui questo episodio viene oggi artificiosamente rappresentato, utilizzato, strumentalizzato, comprendiamo che nulla verrà risparmiato alla giustizia ed alla magistratura.

    E capiamo che nessuno è al riparo da aggressioni e insinuazioni, ormai divenute linguaggio ordinario di una parte della politica nel parlare di questioni di giustizia.

    Non lo sono i magistrati di cassazione componenti del collegio giudicante del processo Berlusconi che – sulla scorta delle affermazioni di un giudice che se mai sta rivelando un “suo” comportamento gravemente scorretto – vengono additati alla pubblica opinione, senza remore e prese di distanza, come incompetenti e servili esecutori di ordini e soldatini di un plotone di esecuzione.

    Non lo è il precedente Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ormai vittima di sistematiche allusioni e denigrazioni e soprattutto del malvezzo di evocare ad ogni piè sospinto interventi e manovre “dall’alto” da parte di personaggi mediocri nelle loro vicende di mediocre spessore. Un malcostume così diffuso che talvolta lambisce anche il Presidente in carica sia pure in termini per il momento più obliqui e sfuggenti.

    Il campo è ormai aperto alle più sfrenate illazioni, alle sintesi più ardite e brutali, alle invocazioni più arbitrarie. Come quella di istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta destinata a fare “chiarezza” sul passato, sul presente e sul futuro, magari seguendo le orme gloriose e lo stile di lavoro di altre Commissioni come Mitrokhin e Telekom Serbia, i cui brillanti risultati sono consultabili da chiunque.

    Non è ancora il tempo di assembramenti fisici, preclusi dal virus. Che sia venuto il momento per la magistratura di promuovere un nuovo rassemblement ideale a comune difesa dei principi primi ed essenziali della giurisdizione e di una corretta informazione sulle vicende del giudiziario?


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