Napoli, Pasquale Sibillo dava ordini dal carcere attraverso la moglie. Le intercettazioni: ‘Ha la pizzeria a Capri e quindi deve pagare di più’

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Era il boss Pasquale Sibillo a dare gli ordini dal carcere ai suoi sodali per mettere in atto il giro di estorsioni a pizzerie e negozi di alimentari di Napoli. Direttive che impartiva con messaggi scritti tramite i parenti che si recavano ai colloqui in carcere. I 22 indagati, per i quali oggi sono scattate le ordinanze, sono ritenuti responsabili, a vario titolo, di essere partecipi del clan Sibillo, di aver più volte estorto denaro ai titolari di pizzerie e negozi di generi alimentari delle zone di San Gaetano e dei Decumani, di partecipazione ad associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti in quelle zone infine di detenzione e porto abusivo di armi da sparo. Figurano anche storiche e famose pizzerie napoletane come “Di Matteo”, “Il Presidente” e “Sofia” tra gli esercizi commerciali di via dei Tribunali, a Napoli, taglieggiate dagli estorsori degli eredi del clan Sibillo. La circostanza emerge dal provvedimento con il quale il gip Tommaso Perrella (39esima sezione) ha disposto, su richiesta della DDA, 16 arresti in carcere, 3 arresti ai domiciliari e 3 divieti di dimora nella provincia di Napoli. Tra coloro per i quali è stato disposto il carcere figurano anche i due reggenti del clan, Giovanni Ingenito e Giovanni Matteo, entrambi cugini del baby boss Pasquale Sibillo (anche lui tra i destinatari delle misure cautelari), della cosiddetta “paranza dei bambini”, (tutti già in carcere), e la moglie di quest’ultimo, Vincenza Carrese, 26 anni, che nel clan occupava una posizione apicale e per la quale le porte del carcere si sono aperte oggi, durante il blitz dei carabinieri scattato all’alba. La consorte del baby boss, che tutti chiamano “Nancy”, portava le cosiddette “imbasciate” (messaggi, ndr) del compagno ai cugini reggenti, teneva sotto controllo la cassa, conteggiando le “entrate” e le “uscite” e, soprattutto, riscuoteva anche il “pizzo” come quando ha convocato a casa dell’abitazione della famiglia Napolitano (tenuta sotto controllo dai carabinieri) i titolari della pizzeria “Il Presidente” per intascare il denaro settimanalmente. Tra l’estate del 2016 e aprile 2017 avrebbero versato ai Sibillo 1900 euro. Oltre alle note pizzerie dovevano pagare il pizzo numerosi negozi di via dei Tribunali, uno dei decumani partenopei e zona turistica particolarmente famosa, come il noto “Bar Max” e la salumeria e macelleria “Sole”. Le date dei “prelievi” sono quelle canoniche; Ferragosto, Natale e Pasqua, e le somme erano destinate, riferivano gli estorsioni ai “carcerati”. Poi, se clan e vittime non si mettevano d’accordo sulle cifre da pagare, scattavano le ritorsioni, come i colpi di pistola sparati contro la saracinesca di Di Matteo la notte dello scorso 25 febbraio.
Aveva aperto un’altra pizzeria a Capri e quindi doveva pagare di più: la circostanza emerge da una intercettazione inserita nell’ordinanza di custodia cautelare. L’intercettazione in questione risale all’aprile 2017 e a parlare di tangenti, tra gli altri, sono Giovanni Matteo e Giovanni Ingenito (entrambi sottoposti a fermo di pm lo scorso marzo, ndr), cugini del baby boss Pasquale Sibillo (già in carcere). Giovanni Ingenito: “…se la capretta (così gli indagati chiamano il titolare della pizzeria “Il Presidente”, ndr) dà altri 500 euro arriviamo a 1000 euro” Giovanni Matteo: “…almeno altri 1000 euro li deve dare, visto che si è aperto la pizzeria a Capri e sta facendo soldi a tonnellate” Dalla stessa intercettazione, a cui prendono parte anche la moglie di Pasquale Sibillo, Vincenza Carrese, che tutti chiamano Nancy, e altre due persone, emerge anche l’esistenza di due liste, una sottoscritta dal baby boss e l’altra invece nelle mani del padre su cui sono annotati cifre, nomi e periodi in cui i negozianti avrebbero dovuto versare il “pizzo”. Tra gli interlocutori c’è un fitto “botta e risposta” sul denaro incassato e da incassare, prendendo in analisi ciascun caso, Antonio Esposito, detto “‘o pop” che si è occupato in prima persona di riscuotere alcune tangenti. Le vittime delle estorsioni hanno perlopiù negato di essere taglieggiati dal clan e solo in un secondo momento hanno ammesso di avere pagato per paura di ritorsioni.


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