Amerigo Vespucci 22 febbraio 1931: Castellammare, il cantiere e un futuro segnato

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Amerigo Vespucci 22 febbraio 1931: Castellammare, il cantiere e un futuro segnato di Ivan Guida 

Nubi scure si addensavano sul cielo di Castellammare e la foschia regnava sovrana nel golfo ormai da diversi giorni. Il Vesuvio si era cinto di “cappello” tanto che furono in molti a uscire con l’ombrello in quella mattina del 22 febbraio 1931 che faceva presagire pioggia. Il tutto nel rispetto di un antico detto “Se il Vesuvio ha il cappello esci con l’ombrello” che, spesso, veniva pronunciato in segno di affetto e rispetto per l’antico vulcano che dominava il golfo di Napoli. Eppure non erano passati molti anni dall’ultima eruzione che tante tracce aveva lasciato sulle campagne dei comuni napoletani, a dimostrazione di una furia distruttiva indomabile da millenni ma che la città delle acque si era ormai messa alle spalle. Nemmeno le nubi nere cariche di pioggia facevano desistere gli stabiesi dall’uscire in strada festanti per assistere, in tranquillità, all’ennesimo successo del Regio Cantiere. Sin dal primo mattino i cittadini si riversarono sul lungomare e nel parco delle Villa Comunale per guadagnare la posizione migliore per assistere al varo di una nave che da lì a poche ore si sarebbe celebrato. Nonostante le condizioni avverse, la Direzione del Cantiere non era intenzionata a rinviare il varo che non avrebbe visto nessuna madrina di Casa Savoia.

Le maestranze erano già al lavoro da giorni per liberare la pesante massa in acciaio dello scafo della nuova nave da taccate e puntelli, che l’avevano sostenuta in fase di costruzione nonostante le avverse condizioni meteo, le piogge incessanti che da giorni si abbattevano sull’antica Fabbrica delle Navi, che rendevano proibitiva qualsiasi azione per l’avvio delle operazioni propedeutiche al varo. Vi era anche un altro buon motivo per far scendere assolutamente la nave in acqua in quella fatidica data del 22 febbraio 1931: il 419° anniversario della morte a Siviglia del celebre navigatore ed esploratore fiorentino Amerigo Vespucci di cui portava il nome il nuovo bastimento. Quel clima invernale e terribile si univa ai timori che il Regio Cantiere non rientrasse più nelle priorità del Governo, visti i continui licenziamenti delle maestranze e le voci di vendita ai privati dello stabilimento che si erano ormai fatte sempre più ricorrenti. Non era altro che una chiara vendetta del capo del Governo: Benito Mussolini.



    Il capo del fascismo fu infatti accolto glacialmente dalle maestranze stabiesi nella visita in cantiere nel 1924 e il timore che il Duce volesse render la pariglia era più che fondato nelle varie anime di tutta la comunità stabiese. L’angoscia subentrava ai timori se si considerava che negli ultimi tre anni le maestranze erano state mortificate con la costruzione di mero naviglio minore, se si esclude dal computo il varo dell’incrociatore Giovanni delle Bande Nere e della prima nave scuola, il Cristoforo Colombo.

    Il tutto a dispetto di ben 145 anni ininterrotti di attività, cominciata su un piccolo arenile nel 1786 grazie ai maestri d’ascia, eredi e continuatori di una nobile e secolare tradizione marinara e di un bagaglio tecnico e professionale unico al modo. Gli esperti e i massimalisti lavoratori dell’arsenale stabiese tentarono il tutto per tutto inviando una petizione a Mussolini, chiedendo la tutela del posto di lavoro, anche se non dichiaratamente fascisti poiché “…essi erano solo dissimili soltanto per fedeltà ed ossequio alle patrie Istituzioni…”. Gli animi ormai erano esacerbati, pronti a scatenare una rivoluzione se lo scenario non fosse cambiato di lì a poco. E tante furono le rimostranze delle varie autorità locali affinché si trovasse giusto rimedio.

    La triste situazione vissuta dal cantiere si ripercuoteva anche sull’intera città che, da qualche anno, si era indirizzata verso una lenta e inesorabile decadenza. Quel giorno la città sembrava per un attimo abbandonarsi alle spalle la cattiva sorte che inesorabilmente anche con quel maltempo si abbatteva sulla città, riprendendo tutti quei riti tra sacro e profano che precedevano il varo di una delle glorie del Regio Cantiere.

    Difatti il varo di una nave, oltre a rappresentare un evento economico-produttivo di un paese, era anche un momento spiritale per l’intera comunità marinara molto sentita specialmente in Castellammare. Lo scafo del Vespucci che da lì a poco avrebbe iniziato la sua discesa verso il suo elemento naturale, il mare, era stato concepito con lo scopo di integrare tradizione e innovazione in un surplus unico nel suo genere: integrare la teoria assimilata nell’Accademia Navale di Livorno con l’addestramento marinaresco, affidato alla perizia dell’equipaggio che lo governava. Nella cappella del Cantiere, alle otto in punto, si celebrò la messa propiziatoria alla presenza delle maestranze del cantiere, del Comandante Militare Oscar Cerio e del Direttore del Cantiere stabiese Odoardo Giannelli. Nel frattempo sotto le palme e gli oleandri del lungomare si stava radunando la popolazione stabiese in attesa del varo e delle autorità.

    La bassa pressione che ormai risiedeva fissa sul Golfo di Napoli, faceva arrivare fitta pioggia sul porto del capoluogo e i venti di Scirocco e di Libeccio si abbattevano con tutta la loro forza nel Tirreno meridionale, costringendo i comandanti delle navi a non tentare la fortuna in mare e a trovare riparo nei porti. Il fotografo Gaetano Cobuzio, stabiese, assieme a un operatore dell’Istituto Luce mandato da Roma si preparava a documentare la cerimonia del varo, nonostante le condizioni atmosferiche poco favorevoli che mal si prestavano ad esaltare il chiaroscuro delle sagome dello scafo, per immortalare la discesa in mare della nuova nave scuola dell’Accademia Navale che avrebbe affiancato il Cristoforo Colombo.

    Da Napoli, l’unica nave a guadagnare il mare fu la nave cisterna Brenta che, mollati gli ormeggi ,si accingeva a raggiungere Castellammare in un paio d’ore, per presenziare al varo della nuova nave scuola della Regia Marina. Era carica di giovani in camicia nera, accompagnati da un folto gruppo di soci della Lega Navale di Napoli. Sul Brenta si imbarcò anche il Conte Roberto Filangeri di Candida, Presidente della sezione di Napoli della Lega Navale. Gli ospiti del Brenta rappresentavano la massima partecipazione del Regime Fascista al varo del nuovo scafo della Marina Militare messo in acqua dalle maestranze del cantiere navale stabiese. Lo spietato piano di Mussolini di lasciare nell’oblio Castellammare e il suo Regio Cantiere continuava ad esser messo in atto.

    La motivazione dello svolgimento in tono minore di così importante cerimonia era ufficialmente legata alla spettacolare impresa del Ministro dell’Aeronautica, Italo Balbo, che, al comando di una squadriglia di 12 idrovolanti, era riuscito ad ammarrare, con 11 velivoli in formazione, nella baia di Rio de Janeiro il 15 gennaio dello stesso anno. Quindi, per il regime fascista, l’opinione pubblica, la stampa e i mezzi di comunicazione del regime c’era pochissimo spazio da dedicare per il varo di una “semplice nave scuola della Regia Marina in Castellammare”.

    Nonostante il tempo volgesse sempre più al peggio, tutto era pronto per la solenne cerimonia del varo. In quella domenica invernale segnata dalla pioggia non sarebbe transitato alcun convoglio ferroviario che, con frequenza, riforniva di lamiere e altri materiali il cantiere navale disposto nella zona portuale, in una zona periferica all’altro capo della città. Il tutto favoriva la popolazione che tranquillamente poteva passeggiare lungo la costa come in qualsiasi altro giorno di festa e non essere disturbata nel corso delle operazioni di varo. Sul lungomare dunque i cittadini, sgomitando, cercavano di guadagnarsi gli ultimi posti disponibili per assistere al varo. Si aspettava ormai solo l’arrivo delle autorità locali e di Sua Eccellenza Ragosta, Vescovo della Città. Alle 9,30 il Brenta attraccò nel porto di Castellammare. Il Conte Filangeri di Candida salì sulla Cassarmonica allestita a ridosso dello scalo su cui il Vespucci si apprestava a congiungersi col suo elemento naturale: il mare.

    Vi erano sul palco anche il Segretario Federale avv. Schiassi, il senatore Castelli, Alto Commissario di Napoli, l’Ammiraglio Nicastro, comandante del Basso Tirreno e il Presidente della Provincia Foschini in rappresentanza di S.E. Albricci oltre a molte altre personalità di prestigio locali. Il Vespucci, dalla carena tondeggiante, nel frattempo aspettava, puntato dagli scontri, in pendenza, con la poppa pronta per lo scivolamento in acqua, e la sagoma che non conferiva alla nave certamente le caratteristiche di un bastimento veloce.

    Tutto era pronto attorno allo scalo numero 2 del cantiere che ,prima del Vespucci, aveva visto nascere e crescere su di esso il vascello Monarca, la prima corazzata Duilio, il Benedetto Brin, l’incrociatore San Marco e la supercorazzata Francesco Caracciolo che, date le notevoli dimensioni, rese necessario radicali lavori di ammodernamento dell’antico scalo in muratura di origine borbonica dotato per l’occasione di avanscalo in metallo. Alle 9.45 fu dato il via all’accurata visita all’invasatura da parte di tecnici deputati allo scopo, per accertarsi che fra le guide e i vasi non fosse presente alcun ostacolo allo scivolamento del sistema nave-invasatura sul piano inclinato. Dopo pochi minuti arrivò il Vescovo Ragosta, che, poco prima, aveva celebrato la messa propiziatoria secondo trazione, accompagnato dal Capitolo e da uno stuolo di chierichetti.

    Egli salì assieme al Comandante Oscar Cerio, Comandante Militare del Cantiere di Castellammare, sul palco del battesimo costruito a prora della nave dove attendeva la Madrina, Elena Cerio, figlia poco più che ventenne del Capitano di Vascello Oscar Cerio, Comandante Militare dell’antica Fabrica delle Navi. Era la prima volta, nella storia del cantiere, durante il quale un “battesimo” dello spumante non avveniva per mano di una Madrina della famiglia reale.

    Alle 10.00 in punto ecco che una tromba segnala a tutti gli addetti il “POSTO DI MANOVRA”, seguito subito da un secondo che dà così avvio alle operazioni di varo con la rimozione delle ultime taccate e delle castagne. Lo scafo è avvinto alla terra dalle sole trinche di ritenuta. Ecco dunque il Vescovo, che con grande solennità, impartisce con l’aspersorio la prima benedizione al Vespucci, poi scendendo altrettanto velocemente, fa il giro dello scafo, benedicendo con soavità liturgica scafo e folla per riapparire subito sul palco.

    Qualche istante ed ecco che il Direttore delle operazioni di varo, fatto dare il segnale di tromba “ATTENTI” e assicuratosi che dalla lanterna posta sul vecchio fortino borbonico fosse ben visibile il segnale “SPECCHIO D’ACQUA LIBERO” rappresentato da una bandiera verde che, in caso di presenza di ostacoli si sarebbe abbasata, ordina “NEL NOME DI DIO TAGLIA”. La bottiglia di spumante lanciata con forza dalla madrina Elena Cerio non si infrange subito sull’acciaio dolce del dritto di prora della nave, rendendo necessario un secondo lancio che centra l’obbiettivo, allontanando subito presagi funesti che nel frattempo andavano ad animare i cuori delle maestranze. Contemporaneamente sotto il palco, iniziano le manovre vere e proprie del varo.
    Il silenzio mistico che accompagnava la cerimonia viene rotto dal rimbombo dei colpi delle accette sulle trinche di ritenuta a prora. Ancora una volta la voce del Direttore del Cantiere sovrasta i rimbombi delle operazioni di varo: “IN FORZA I MARTINETTI”.

    È il momento dell’attesa massima, l’emozione è al colmo. Le anime delle maestranze sono attraversate da un turbine di emozione che vanno dalla gioia alla desolazione.

    Si trattiene il respiro, s’impallidisce, si trema quasi aspettando. I martinetti gemono, una piccola spinta, un solo giro della vite, ed ecco che la nave si scuote, vinto l’attrito di primo distacco, lentamente scivola poi corre ardita, al fine si tuffa nel mare tra un pulviscolo bianco di gocce. Le maestranze, che ai margini dell’invasatura, spiavano ogni piccolo movimento dello scafo, accompagnandolo con lo sguardo fino al “bacio” con il mare, si abbandonano alla gioia di vedere l’ennesima gloria finalmente in mare: l’aria è carica del fragoroso rumore degli applausi e dei suoni della banda e delle sirene delle navi in porto.

    L’atmosfera è quella di una grande festa e, per un attimo, tutti vogliono dimenticarsi delle tante nubi oscure, meteorologiche e non, che sorvolano la città e il suo cantiere. Ed ecco che i due cavi di ritenuta entrano in forza per spegnere l’abbrivio, il moto, della nave finalmente in acqua, libera dall’invasatura che si adagia sul fondo e galleggiante.

    L’evento pareva rientrare in una tradizionale cerimonia per uno dei tanti vari di quello che era stato il più importante cantiere navale del Mediterraneo nella prima metà dell’Ottocento.

    Fra le nubi del cielo non fece capolino il raggio di sole, ma il Vespucci scivolò lentamente in acqua, illuminato dalla luce della Storia e legando il suo nome a quello della città che gli ha dato i natali. Nessuno quel giorno osò immaginare che quel bastimento, varato tra l’indifferenza totale, contornato dal maltempo e dall’alone della mala sorte, avrebbe avuto l’attività operativa più lunga di qualsiasi altra nave della storia fino ad arrivare a esser definito la nave più bella del mondo. Quel giorno aveva inizio la leggenda del Vespucci.

     Ivan Guida

    (Amerigo Vespucci: foto per gentile concessione di Libero Ricercatore )


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