Napoli, l’attore “Biscottino” spacciava crack all’Arenella

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E’ in atteso di conoscere il suo destino giudiziario il giovane attore Alfredo Turitto, arrestato dai carabinieri mentre spacciava crack in via Sergio Abate nella zona dell’Arenella. Il 19enne originario del rione Materdei è noto, non solo alle forze dell’ordine ma anche al pubblico televisivo per aver preso parte al film “La Paranza dei bambini” nel ruolo di uno dei protagonisti ovvero “Biscottino”.

I Carabinieri del nucleo operativo della compagnia Vomero hanno notato il giovane a via Sergio Abate. Il 19enne cede qualcosa ad un uomo che gli si era appena avvicinato e i militari, in sella di uno scooter “civetta”, intervengono e constatano lo spaccio di droga. Nelle mani del cliente una dose di crack, nella tasca del giubbotto di Turitto altre 4 dosi della stessa sostanza, un telefono cellulare e la somma contante di 50 euro ritenuta provento del reato.

Turitto fu protagonista del cast de La paranza dei bambini, il film del 2019 diretto da Claudio Giovannesi e tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano. La paranza dei bambini è il secondo romanzo di Roberto Saviano a ottenere una trasposizione cinematografica. Anche per questo, oltre che per l’ambientazione nella malavita partenopea, la mente corre veloce dalle parti di Gomorra di Matteo Garrone, con il quale il quarto lungometraggio di finzione di Claudio Giovannesi – unico italiano in concorso alla Berlinale – condivide anche la professionalità di Maurizio Braucci in fase di scrittura.

    Ma sarebbe davvero riduttivo, per non dire completamente errato, fermarsi a un apparentamento di questo tipo. Giovannesi non è Garrone, e i due sguardi non sono strettamente sovrapponibili. L’occhio sistemico di Garrone, la cui rappresentazione del microcosmo criminale – e del proletariato che vi afferisce, manovalanza destinata spesso e volentieri a una fine grama – diventa rigoroso scandaglio di un’identità sociale prima ancora che dell’umanità che vi fa parte, non si addice a Giovannesi, regista molto più impulsivo, partecipe della vita e delle disavventure dei protagonisti dei suoi film.

    È così anche ne La paranza dei bambini che, come spiega un cartello ad anticipare i titoli di coda, non può essere considerato null’altro se non opera di pura creazione artistica, pur prendendo spunto da una tragica realtà, documentata – per restare nel campo dell’audiovisivo – anche da Michele Santoro nel didascalico ma interessante Robinù, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2016. Dopotutto lo stesso Saviano, al momento di scrivere il romanzo, aveva già affrontato la delicata questione delle bande giovanili nella lotta camorrista napoletana in forma giornalistica.

    Da un punto di vista di struttura drammaturgica, La paranza dei bambini appare in tutto e per tutto un romanzo di formazione. Con un’unica eccezione, una deviazione dal tracciato: non esistono educatori. Per meglio dire, non esistono educatori diretti. Quando il quindicenne Nicola osserva i due scagnozzi del boss della zona estorcere il pizzo alla madre, che gestisce una piccola lavanderia, non è alla ricerca di mentori, non ha bisogno di lezioni. Quelle gliele ha già impartite la vita, prima ancora che sapesse razionalizzarle nel cervello probabilmente.

     La trama del film La Paranza dei bambini

    Anzi, gli educatori sono visti come un peso da togliersi il prima possibile di dosso: è così per il boss con cui Nicola e i suoi fedelissimi sodali iniziano a lavorare e che sostituiscono nel momento stesso in cui una retata della polizia durante un matrimonio fa piazza pulita dei camorristi, ma anche e forse soprattutto per colui che gli ha insegnato a tagliare i panetti di fumo da rivendere poi davanti alla piazza dell’università, addirittura freddato in casa da Nicola quando la decisione di “prendersi” il quartiere diventa più di una velleità.

    L’elisione del concetto stesso di insegnante mette in evidenza la natura inevitabile, perfino empirica della struttura clanica e della sua perpetuazione. Nicola è figlio di una lavoratrice – madre single, del padre non c’è dato sapere nulla – e anche gli amici con cui è cresciuto nel quartiere non hanno parentele nella criminalità locale. Ma loro hanno sempre vissuto accanto e quindi dentro quella realtà.

    Riuscire a mettere piede in casa degli Striano, che hanno il padre pentito e lo zio morto ammazzato e per questo sono considerati dei reietti, relitti di un mondo passato, è considerato quasi come un rito d’iniziazione, un riconoscimento di stima, qualcosa di così incredibile da meritare un selfie. La ripetizione dello schema si basa su un’interpretazione dell’immagine che si ha di quella realtà. Si vede una foto di un boss con un suo scherrano? La si replica col cellulare.

    Si maneggia senza troppa convinzione un Kalashnikov? C’è un tutorial su Youtube che può venire in soccorso e risolvere la situazione. Non hanno bisogno di nulla, Nicola e i “suoi”, e per questo possono avere la libertà di mettere le mani sulla città, o almeno su una piccolissima parte della stessa, vale a dire il rione Sanità, che diede i natali a Totò.

    Perché Napoli non è mai stata così frammezzata, ridotta a un cumulo di vicoli, vicoletti e piazzette. Il rione Sanità contro i Quartieri Spagnoli, o contro Scampia. Tutti divisi, come testimonia in modo lampante la bella sequenza in discoteca, replica in chiave giovanile e notturna dei tavoli del matrimonio tutti occupati da singoli esponenti della malavita cittadina.

    L’amore tra Nicola e la bella Letizia, conosciuta proprio in discoteca – meglio, sulla strada per la discoteca, quando Nicola ancora non aveva accesso ai luoghi del benessere – ha il vago sentore shakespeariano del tragico sentimento tra famiglie in lotta, solo che qui le famiglie sono state sostituite dal quartiere di nascita. Anche per questo Nicola, Tyson, Biscottino, Lollipop e gli altri vivono come un diritto quello di “riprendersi” il quartiere: gli usurpatori non sono neanche del rione.

    Giovannesi tratteggia quest’impeto infantile – si va, come già scritto, dai quindici anni a scendere – con uno sguardo dolcissimo e dolente, facendo straripare la puberale umoralità attraverso le corse in motorino, ma allo stesso tempo ingabbiando questi ragazzini in una società in cui solo l’evidenza della ricchezza marca la differenza di classe, e la rispettabilità della persona. Orologi d’oro, infissi d’oro, statue leonine d’oro, contrabbassi porta liquori, letti imperiali.

    Il sogno dell’emancipazione dalla sudditanza passa attraverso la possibilità economica. Nicola e Letizia non sono mai stati al San Carlo, non hanno mai sentito l’opera, e la prima cosa che li colpisce è l’eleganza del luogo, il tessuto morbido che riveste la balconata. Parte integrante di una contro-società che fa del non detto e non dichiarato il proprio cavallo di battaglia, i protagonisti de La paranza dei bambini trovano solo nel palesamento delle proprie potenzialità la forza necessaria per agire.

    Senza darlo a vedere, e con una dolcezza di sguardo a tratti spiazzante, Claudio Giovannesi tratteggia per quasi due ore una preparazione alla guerra. Una guerra che dovrà ancora venire, e che sarà spietata, e che sarà senza speranza. Renderà Nicola e gli altri – straordinari tutti i giovani interpreti – uomini, nell’accezione peggiore che si può attribuire a questo termine. Icone, santini pronti per altri bambini, in un ciclo infinito.



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