Trent’anni dalla “C” di Craxi alla “D” di Davigo

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Lo aveva detto Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica nel pieno della bufera di Mani Pulite. Cosa aveva detto? “Finiranno per arrestarsi tra loro!”.

Si riferiva ai magistrati, ai Pubblici Ministeri d’assalto, in particolare. Non si sa se fosse una profezia o piuttosto un anatema. Ma certamente con quelle parole Cossiga si riferiva ai magistrati inquirenti come i P.M.. Da parte sua, Bettino Craxi, da Segretario del partito Socialista Italiano, aveva inaugurato la stagione di Tangentopoli, affibbiando l’epiteto di “mariuolo” al socialista Mario Chiesa, colto in flagranza dalla Procura della Repubblica di Milano con una tangente di sette milioni di lire, proprio in un uggioso giorno di Febbraio di trenta anni or sono.

Ma il suo fu un dannato errore di valutazione di cui ebbe poi a pentirsi amaramente, quando si rese conto che anche lui stesso, grande capo indiscusso dei socialisti era nel mirino della stessa Procura e forse non solo. Perché si è sempre a mezza bocca poi narrato che i servizi segreti italiani deviati furono gli armatori delle siluranti messe in azione da alcune Procure, per portagli il conto salato della crisi di Sigonella, che fu uno smacco per i servizi americani.



    Bettino Craxi fu sottoposto comunque al fuoco incrociato della Procura milanese non solo dai poi famosi e intoccabili Di Pietro, Pier Camillo Davigo e Gherardo Colombo.

    Questi tre costituivano il pool ristretto e forte della Procura di Milano allora retta dal Procuratore Francesco Saverio Borrelli, sponda e rampa di lancio alle loro bordate lanciate con precisione premeditata ai più grossi esponenti della politica italiana di governo, bersagli più esposti alla corruttela. E questo fu un discrimine per l’azione giudiziaria, nonostante l’ecumenismo della corruzione a livello nazionale e locale, dove il manuale Cencelli non veniva usato solo per la spartizione di Poltrone e Potere. Ma anche per le “spartizioni” ut sic, quelle delle mazzette, calcolate fino alle cifre centesimali tra i Partiti.

    Così ha avuto modo di precisare in TV in questi giorni Gherardo Colombo – che potremmo oggi anche definire un “pentito” di Tangentopoli, dell’altra parte della barricata. Egli da tempo esprime giudizi anche serenamente autocritici sugli eccessi di Tangentopoli, ben diversamente dagli altri due Pretoriani della Corporazione delle Toghe del Tempio della Giustizia. Ci riferiamo ovviamente ad Antonio Di Pietro e a Pier Camillo Davigo.

    Su di loro, fin troppo noti ancora oggi, non spendiamo parole, lasciando ai nostri lettori il giudizio che hanno potuto già maturare nel trentennio trascorso da Tangentopoli, che li ha visti imperterriti invece ribadire le proprie posizioni giustizialiste, sulla pelle degli altri, senza alcun segno di riflessione autocritica. Anzi, tutt’altro!

    Ebbene nel giorno del trentennale dell’inizio di Tangentopoli, il giudice Pier Camillo Davigo, protagonista di una vita da PM, è stato rinviato a giudizio.
    Una vendetta della Dea Nèmesi, che si è compiuta al termine di una parabola trentennale per passare dalla “C” di Craxi alla “D” di Davigo.

    E intanto si profila un referendum il cui esito potrebbe vietare la possibilità di scambio dei ruoli nel corso della carriera tra inquirenti e giudicanti. E’ questo uno dei nodi della Giustizia peraltro. E’ stretta attualità in essere, anzi in divenire, con il Referendum alle porte. L’edificio solenne della Giustizia, che stava già mostrando chiaramente tutte le crepe che già si intravedevano da decenni, ormai rischia di sgretolarsi, se non si mette mano al varo della Riforma della Giustizia e dell’Ordinamento giudiziario, smettendo di soffocare nelle culla ogni proposta, più o meno accettabile, che venga dal Ministro della Giustizia di turno.

    E questa ansia di rigetto è stata plausibile e comunque comprensibile quando il Dicastero della Giustizia era guidato da un grillino, avvocato di provincia di incerte speranze, ma ai tempi della sua giovinezza noto sulle spiagge siciliane come Fofo’ il DJ.
    Ora non è più così perché che il Dicastero con Draghi è passato nelle mani, non impeccabili certo, ma almeno senza alcun dubbio competenti di una ex Presidente di Corte Costituzionale, Marta Cartabia, giudice stimata da destra e da sinistra, prima donna a ricoprire quel ruolo. Per non passare da farisei non possiamo però sottacere che non è certo il ruolo di Presidente della Corte che garantisce da solo la qualità dell’eletto.

    E che i giudici costituzionali non sono esenti da critiche. E che essi sono compatti soltanto nella loro radicata abitudine di scambiarsi, come prassi semestrale, il ruolo di Presidente per inerzia di età, divenendo così a turno Presidenti “semestrali”. Pronti però ad andare in pensione, ma con status di ex presidente e relativi benefit a cascata. Nel Bel Paese va così….

    Federico L.I. Federico


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