Strage di Capaci, il suono del ‘silenzio’ e lunghi applausi dai balconi. Magistrati e politici: “Basta antimafia di facciata”

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Palermo. Un flash mob con le lenzuola bianche appese ai balconi dei palazzi di via Notarbartolo e un trombettista che alle 17,58, l’ora dell’attentato, ha intonato le note del “silenzio”. Cosi’ si sono concluse idealmente, davanti all’albero Falcone e alla stele di Capaci che ricorda l’eccidio, le manifestazioni per il 28esimo anniversario della strage in cui furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Alla cerimonia in via Notarbartolo erano presenti, tra gli altri, Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso e presidente della Fondazione intitolata al fratello che ha promosso la manifestazione, il neo prefetto di Palermo Giuseppe Forlani, il presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè, il sindaco Leoluca Orlando e i vertici delle forze dell’ordine. Nonostante il divieto di assembramento per l’emergenza coronavirus un centinaio di palermitani non ha rinunciato a essere presente e, dopo il minuto di silenzio un lungo applauso, anche dai balconi, dove molti hanno appeso lenzuoli bianchi, ha accompagnato la lettura dei nomi delle vittime letti quest’anno da 11 lavoratori che non si sono fermati durante l’epidemia.

Un ricordo diverso – 28 anni dopo la strage – senza il corteo, senza il dibattito, senza i giovani. Ma in tutta Italia la strage di Capaci è stata ricordata con un lenzuolo bianco appeso ai balconi dei municipi, nelle aule della politica. Ma ugualmente intenso e commovente. La giornata del ricordo del giudice Falcone, della moglie Francesca Movillo e degli uomini della sua scorta è iniziata con le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “La mafia si è sempre nutrita di complicità e di paura, prosperando nell’ombra. Le figure di Falcone e Borsellino, come di tanti altri servitori dello Stato caduti nella lotta al crimine organizzato, hanno fatto crescere nella società il senso del dovere e dell’impegno per contrastare la mafia e per far luce sulle sue tenebre, infondendo coraggio, suscitando rigetto e indignazione, provocando volontà di giustizia e di legalità”. “I mafiosi, nel progettare l’assassinio dei due magistrati – ha sottolineato il capo dello Stato – non avevano previsto un aspetto decisivo: quel che avrebbe provocato nella società. Nella loro mentalità criminale, non avevano previsto che l’insegnamento di Falcone e di Borsellino, il loro esempio, i valori da loro manifestati, sarebbero sopravvissuti, rafforzandosi, oltre la loro morte: diffondendosi, trasmettendo aspirazione di libertà dal crimine, radicandosi nella coscienza e nell’affetto delle tante persone oneste”. Mattarella si è quindi rivolto ai giovani, ai cui passa “il testimone” del messaggio lasciato da Falcone e Borsellino, “siate fieri del loro esempio e ricordatelo sempre”. Un coro unanime di speranza e determinazione nella lotta a tutte la criminalità organizzata unisce istituzioni e politica, tanto più in un momento di crisi economica dovuta all’emergenza coronavirus, che potrebbe aprire spazi all’insinuarsi della mafia. Ed è per questo, scandisce il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che “adesso più che mai dobbiamo vigilare. Le mafie si nutrono delle difficoltà dei cittadini. Per questo, di fronte alla pandemia che sta danneggiando il nostro tessuto occupazionale, il nostro sistema produttivo, la risposta dello Stato deve essere forte, rapida e incisiva”. Per il premier, “l’Italia è un grande Paese è l’esempio di Falcone e Borsellino, e del sacrificio di chi ha combattuto la mafia “ci rafforzano nella convinzione che il ‘piano’ delle mafie è destinato a fallire”.

Ma oggi è stata anche la giornata degli interrogativi, pesanti, e della coerenza di tanti finti paladini dell’antimafia. A sottolinearlo, tra gli altri, il procuratore Francesco Lo Voi, il presidente del tribunale Salvatore Di Vitale e il presidente della Commissione regionale antimafia Claudio Fava, che hanno sollevato dubbi e perplessità su quella che viene definita una “antimafia di facciata”. Di Vitale la descrive come un sodalizio che “vive di riflessi mediatici e di momenti celebrativi”. E c’è, aggiunge, chi fa ricorso a schemi strumentali per accreditarsi come la “parte buona”. Per Di Vitale ci vuole un ricambio culturale ma soprattutto un rovesciamento del valore negativo della stessa parola antimafia: bisognerebbe usarla nel senso positivo dei comportamenti non solo nelle cerimonie. Questa è in fondo la lezione che anche il procuratore Lo Voi trae dal lavoro di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. “Come loro non ce ne sono stati più e non ce ne sono adesso”. Erano “unici”. Poi sono venuti tanti “imitatori”. Qualche replicante magari è in buona fede ma gli originali, come si sa, sono un’altra cosa. A volte, è il giudizio di Lo Voi, i replicanti “fanno ridere”. “Il fatto è che l’antimafia si è allargata troppo”, dice Giuseppe Di Lello che faceva parte con Falcone del pool antimafia. “Si è scelto di fare la pesca a strascico. E così sono finiti nella stessa barca chi paga il pizzo e chi lo fa pagare e quelli che proclamano una cosa e ne fanno un’altra. Ma attenzione: c’è tanta gente che che fa antimafia con gesti concreti e senza tanti proclami”. Dalla magistratura alla politica. Il presidente della commissione regionale antimafia allarga il campo delle critiche e in un’intervista dice che “bisognerebbe abolire per decreto l’etichetta antimafia riferita ai giornalisti, ai politici, agli imprenditori”. “E’ oggi – chiarisce – un’etichetta che sa di carnevale, di auto rappresentazione. E’ autoreferenziale, l’antimafia da copertina, quella ricevuta al Quirinale, che nel chiuso dei corridoi delle stanze spiega cosa vuol dire fare il ‘capocondominio’, espressione usata da Candela in un dialogo intercettato per spiegare il proprio ruolo apicale nel sistema sanitario regionale”. Fava pensa ai ragazzi spesso travolti dalla “dimensione rutilante dell’eroe”, suggerisce la costruzione di un nuovo alfabeto e muove una critica anche all’informazione: “Se domani si incontra un giornalista che dice ‘io faccio il giornalista antimafia’ bisogna farlo accomodare fuori. E’ una ritualità che produce carriere e toglie formazione”.


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