Precarious, Letti Sfatti con Sandro Ruotolo: ‘Precario, precariato. Game Over’

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‘Precarious’ è il nuovo brano di Letti Sfatti con Sandro Ruotolo: una fotografia d’autore che immortala in musica una condizione tutta italiana

 

 

“La vita non è un gioco eppure Precarious gioca con la tua vita.”



    ‘Precarious’ è una canzone che Jennà Romano, leader del gruppo Letti Sfatti, ha scritto nel 2007 quando si ritrova a guardare la culla di suo figlio nato da pochi giorni e a porsi una silente domanda: “Riuscirò a portare avanti tutto questo?”

    Il precariato è il tema portante del brano, l’insicurezza, il disincanto, e tutto ciò che può scaturire da una realtà in cui il lavoro non è affatto una certezza. Oggi siamo nel 2020 e quella canzone scritta anni prima conserva più che mai la sua drammatica attualità, ma il precariato non è un gioco, la vita non è un gioco, eppure la scelta per raccontare con un video questo brano è stata precisa e cioè rappresentare il precariato come se fosse un videogame il cui protagonista è lui: Precarious – si legge nella nota stampa -.

    Di quanto il precariato non sia un gioco ne abbiamo parlato in poche ma significative battute proprio con il giornalista e senatore Sandro Ruotolo partendo da una dichiarazione di Papa Francesco che qualche anno fa disse:  “Lavoro precario e lavoro nero uccidono la dignità”, definendo entrambe le condizioni come “immorali”.

    Senatore Ruotolo chi sono oggi i veri lavoratori precari? Perché non si riesce a estirpare questa gramigna così infestante?  Il lavoro nero, il precariato, sono diventati secondo lei condizioni radicate nella nostra cultura?
    “Lavoro nero e precariato fanno parte del cosiddetto mercato del lavoro e certamente non è un sogno o un’aspirazione. Dobbiamo considerare che non siamo americani dove le occasioni di lavoro sono così tante che se ne molla uno per prenderne un altro con una certa facilità. Da noi quando entri in un circuito di precariato hai solo ansia e disperazione sia per il trattamento economico sia – soprattutto! – perché vengono meno serie di diritti conquistati nel tempo: dallo statuto dei lavoratori ai diritti sulla salute, la pensione, le condizioni di lavoro, il salario.
    L’unico elemento che può essere interessante è la sconfitta di quella cultura del ‘tutto mi è dovuto’, del cosiddetto ‘lavoro stabile e sicuro’ ma non è certo la strada del lavoro nero o precario che può soddisfare la dignità di una persona.
    Il precariato come il lavoro nero non lo vedrei come un elemento radicato nella nostra cultura ma un dramma. Non è pensabile riproporre il posto di lavoro stabile e sicuro, devi creare dei meccanismi di ‘meritocrazia’ ma noi siamo un sistema dove le clientele l’hanno fatta da padrone. Da noi se non conosci non puoi aspirare, è in questo che dovremmo cambiare la cultura del nostro Paese.”

    La musica e il testo sono di Jennà Romano che, oltre ad essere il leader del gruppo Letti Sfatti, ha scritto canzoni con e per Francesco Tricarico, Francesco De Gregori, Arisa, Patrizio Trampetti. Ha collaborato con Tony Esposito, Franco Del Prete e James Senese, Peppe Lanzetta, Lucio Dalla, Fausto Mesolella. Nel 2019 realizza il libro + album di canzoni dal titolo “Il lanciatore di donne” (Ed. Spartaco) che fa seguito a “Questa città”, esordio nella narrativa del 2011 firmato con Erri De Luca.

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    L’autore del brano, riferendosi al tema del precariato, a un certo punto canta: ‘Suoni tutto in do minore’.
    Nella stessa tonalità è stata composta la sinfonia n.5 di Beethoven, il concerto n.2 per pianoforte e orchestra di Rachmaninov, un evergreen della musica new wave come Sweet Dreams degli Eurythmics e tanto altro.
    Quale sentimento associa Romano al do minore? A cosa ti sei ispirato musicalmente per comporre questo brano che sembra abbastanza lontano da “La serranda” del 2019?

    “Suonare in minore in generale, partire con un accordo in minore equivale a cominciare a scrivere una canzone quasi sempre malinconica. Le tonalità minori non sono pertanto un presupposto per andare in una direzione gioiosa. ‘Precarious’ in realtà è un po’ un’anomalia visto che il brano ha una prevalenza di accordi maggiori. Mi piaceva quindi  far venire fuori non la tristezza, la malinconia ma il disincanto e la rabbia. Il brano è stato scritto nel 2007 alla nascita del mio primogenito e anche se pubblicato solo oggi conserva purtroppo la sua drammatica attualità. Mi è stato ispirato da tantissimi amici che non riuscivano e tutt’oggi non riescono a collocarsi nel mondo lavorativo in modo stabile. Questa precarietà, che una volta apparteneva solo a chi faceva un mestiere come il mio, negli ultimi anni è comune a molte categorie. A loro modo in parecchi, pur non essendo musicisti suonerebbero in do minore.”

    Il video è stato curato da ACD Produzioni, società indipendente napoletana di Lorenzo Cammisa (protagonista del videoclip), Giuseppe De Rosa e Giovanni Antinolfi, già premiati con The Golden Spike al Festival del Cinema di Cannes nel 2018.

    Nel video le azioni del protagonista si intersecano e dialogano con elementi tipici dei giochi arcade degli anni ’80-’90 fino a che, nel marasma degli scenari che cambiano veloci, l’uomo si ritrova ormai vecchio, ancora ad ‘aspettare’ senza poter tornare indietro e rifare il gioco da zero.

    E’ del tutto evidente che la grafica dei nostri device è diventata il linguaggio con cui si intrattiene qualunque tipo di relazione e ad essa sono affidate la maggior parte delle nostre scelte. Si può parlare, come il video suggerisce, di un affollamento mentale oltre a quello visivo?

    “Tutta la nostra realtà è ormai mediata dal format grafico dei nostri device al punto di riconoscere l’evoluzione stessa delle nostre azioni quotidiane all’interno di questi standard. – ci spiega Lorenzo Cammisa a nome di tutto il gruppo ACD Produzioni -. Ci sentiamo continuamente dinanzi ad uno schermo e rispondiamo alle domande che ci vengono poste non riconoscendo strade alternative a quelle che ‘il sistema’ ci lascia intravedere. Nel videoclip la presenza del videogame offre al precario strade già preimpostate e l’uomo finisce per allinearsi e attendere all’infinito. L’affollamento visivo si sviluppa fuori di noi ma attecchisce all’interno, è soprattutto mentale.”

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