Bancarotta Moby, chiuse le indagini per Onorato e figli

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La Procura di Milano è pronta a chiedere il processo per bancarotta fraudolenta a carico di Vincenzo Onorato e i figli Achille e Alessandro per la gestione del gruppo Compagnia di Navigazione Italiana – Moby (CIN).

L’armatore e i suoi congiunti sono accusati di aver depauperato il patrimonio di Cin, attraverso “condotte di dissipazione o distrazione” tali da determinare non solo “il sistematico drenaggio di risorse (…) a favore di Moby” per far fronte agli “oneri finanziari” per la scalata alle due stesse società, ma anche per l’acquisto o l’affitto di appartamenti in centro a Milano o per compensi “incongrui”.

L’avviso di conclusione delle indagini, che prelude alla richiesta di processo, è stato firmato dai pm Roberto Fontana, ora al Csm, e Luigi Luzi ed è stato notificato qualche giorno fa. “Non condividiamo gli esiti di tali valutazioni” della Procura di Milano “per un fondato e corposo ordine di ragioni sia fattuali che giuridiche, che avremo presto modo di rappresentare ai magistrati per dimostrare la perfetta legittimità dell’operato della famiglia Onorato” è il commento di Pasquale Pantano.



    Bancorotta Moby: pronto l’avviso di conclusione indagini

    Il difensore ha poi aggiunto: “i rilievi più significativi mossi ai miei assistiti hanno ad oggetto valutazioni relative ad attività molto complesse”. Nell’atto, con al centro una delle vicende economico-finanziarie più delicate degli ultimi anni, si contestano ai tre indagati quattro episodi.

    Il primo è legato all’acquisizione del controllo di Cin e di Moby, società quest’ultima di cui Vincenzo è stato anche presidente con deleghe del Cda e i secondi amministratori: i tre avrebbero privato Compagnia Italiana di navigazione, di cui uno era amministratore di fatto e gli altri due di diritto, “della liquidità occorrente per il regolare adempimento delle proprie obbligazioni e in particolare quella del pagamento del saldo del prezzo di acquisto del ramo d’azienda dall’Amministrazione straordinaria di Tirrenia s.p.a”.

    In particolare con una “operazione funzionale all’acquisizione del controllo totalitario” di entrambe le società. Tra le varie contestazioni, oltre ad aver favorito “le banche facenti parti del cosiddetto ‘pool finanziamenti bancari'” versando loro 54 milioni, di cui 50 “a titolo di restituzione del capitale”, mentre il gruppo annaspava tra serie difficoltà economiche, si addebita all’armatore il compenso “per la carica di presidente del consiglio d’amministrazione nel triennio 2016-2018 dell’importo annuo di 3 milioni, manifestamente incongruo rispetto ai valori sia medi (ca. 600 mila) che massimi (ca. 1.400mila)” degli stipendi nel settore e il “doppio rispetto alla media” all’estero.

    Sempre lui risponde anche dell’acquisto, nel luglio 2017 e al prezzo di e 7 milioni (oltre 640.000 euro di spese notarili)”, di un immobile – utilizzato “in gran parte per ripianare i debiti personali verso banche” – in Piazza San Babila a Milano: la cifra versata sarebbe superiore di 2 milioni rispetto al valore di mercato e l’acquisto sarebbe avvenuto “con falsa indicazione nella relativa delibera” del cda “della destinazione del bene” che in realtà non era “di rappresentanza della società” bensì la sua “abitazione” milanese.

    Lo stesso sarebbe accaduto per l'”acquisto e ristrutturazione” da 4,45 milioni di euro di Villa Lilium ad Arzachena, in Costa Smeralda, non “sede di rappresentanza e convention” ma “casa per vacanze di membri della famiglia”. E poi ci sono le spese per la ristrutturazione, tra il 2019 e il 2020, di appartamenti a Napoli di proprietà della madre di Vincenzo Onorato per circa 700 mila euro. Stessa cifra spesa per il noleggio di autovetture di lusso e un Falcon 2000EX per gli spostamenti dei tre indagati.

     



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