L’artista campano Patti tra i dieci finalisti del ‘Premio Paolo VI’ a Brescia

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Sabato 11 settembre, a Concesio (Brescia), si inaugura la mostra dei dieci finalisti della terza edizione del “Premio Paolo VI per l’arte contemporanea”, inserita nel progetto “Geometrie di Valle” promosso da Comunità Montana di Valle Trompia, che ha meritato il contributo di Regione Lombardia nell’ambito dei “Piani Integrati della Cultura”.

Su 115 candidati provenienti da tutta Italia, tra i dieci finalisti (CaCO3, Angelica Consoli, Elisabetta Necchio, Nadia Nespoli, Laura Patacchia, Massimiliano Pelletti, Teo Pirisi (Moneyless), Giovanni Rossi e Francesco Visentini) c’è Pier Paolo Patti, unico artista meridionale, campano per l’esattezza, protagonista con gli altri della mostra “Passaggi” che sarà aperta al pubblico fino a sabato 18 dicembre 2021.

“Il Premio Paolo VI per l’arte contemporanea” – spiega il Direttore del museo, Paolo Sacchini, – “è un concorso rivolto ad artisti italiani o di nazionalità straniera (purché domiciliati in Italia), con particolare attenzione ai giovani artisti emergenti, che intendano riflettere sul tema del sacro o forse ancora meglio dello spirituale, inteso tuttavia in senso molto ampio e non strettamente confessionale.”



    La Giuria del premio, coincidente con il Comitato Scientifico del museo è composta – oltre che dal direttore Sacchini – da Cecilia De Carli, Paolo Bolpagni, Don Giuliano Zanchi, Elena Di Raddo e Marco Sammicheli.

    “Ogni artista porta una propria personale declinazione del tema del sacro e della spiritualità in un senso assolutamente contemporaneo con linguaggi che rispondono al nostro tempo”, spiega Marisa Paderni, conservatore del museo e curatrice della mostra insieme a Sacchini.
    “Il visitatore vedrà 10 diverse vie di approccio alla materia sacra che invitano a sostare e a riflettere con strumenti diversi, tutti capaci di esprimere e rispondere ai quesiti fondamentali dell’interiorità umana che interroga e indaga su un oltre che in qualche modo esiste e che gli artisti cercano secondo la loro poetica di esprimere”.

    Collezione Paolo VI - arte contemporanea
    Collezione Paolo VI – arte contemporanea
    Concesio (Brescia)

    Sabato 11 settembre la mostra sarà visitabile dalle 14.30 alle 18:30 con ingressi regolamentati e priorità per chi prenota entro venerdì 10 settembre alle ore 15.00 al numero 030.2180817 o alla mail [email protected]
    In ottemperanza alla normativa vigente, per accedere sarà necessario presentare il Green Pass.

    Intervista a Pier Paolo Patti a cura di Anita Franchi

    AF: Sei un artista multidisciplinare capace di coniugare con originalità tecniche artigianali e nuove tecnologie. Da cosa nasce il desiderio di sperimentazione che tanto anima la tua attività d’artista?
    PPP: Il punto in cui mi trovo adesso dove mischio parecchio diversi media e diverse tecniche artistiche è frutto di un percorso che viene da lontano.
    Ho iniziato da adolescente con la pittura materica poi, appassionato di tecnologie ho lavorato per molti anni con il video, con la video-arte in generale, con le video-installazioni che poi pian piano hanno integrato il video con altri materiali, ma non ho mai perso di vista quel contatto con la materia che fa un po’ artista di bottega, del laboratorio quindi dell’officina che è una caratteristica che anche nelle video-installazioni ho sempre un po’ conservato.
    Poi, negli anni c’è stato un naturale allontanamento dall’ambiente tecnologico perché poi per lavoro sei sempre davanti al computer o con il cellulare in mano e visto che la pratica artistica la definisco anche una pratica di crescita interiore e di meditazione, quest’utilizzo dei materiali fisici mi dava molto.
    Un altro step, negli anni, è la stampa di fotogrammi dei video per fare delle installazioni a parete con dei video frame, quindi fotografia su video e poi su carta per realizzare installazioni materiche. Tutto nasceva da una riflessione fatta sul tempo perché il video ha un tot di fotogrammi al secondo che è dato dalla tecnica del video e quindi ha una fruizione stabilita da chi fa il video. Prendere dei singoli fotogrammi, utilizzarli come foto e metterli in sequenza, restituisce all’opera un tempo diverso di fruizione per cui puoi rimanere davanti ad una sequenza di tre fotogrammi mezz’ora anziché un secondo come indicherebbe il video.
    Queste sono una serie di riflessioni che ho fatto tra la tecnologia e il voler tirar fuori la materia dal virtuale e quindi poi è venuto, in maniera naturale, questo mix di discipline.
    C’è la curiosità di utilizzare il mezzo artistico per fare una serie di riflessioni.
    Non mi piace catalogare le discipline artistiche. Se ho bisogno per un ragionamento o una riflessione che sto facendo da un punto di vista artistico di mettermi a disegnare per capire come è fatto un oggetto, oppure se ho bisogno di andare in un luogo per fotografare un posto e catturarne le caratteristiche lo faccio indistintamente, senza definirmi né un fotografo, né un video-artista e né un pittore.
    Devo dire che è molto difficile trovare una coerenza tra tutte queste cose perché ovviamente ogni linguaggio ha una sua caratteristica anche estetica, però negli anni, con l’esperienza, mixando bene e avendo un po’ di padronanza delle diverse tecniche sono riuscito anche a superare un limite concettuale dell’artista.

    Quali ritieni siano state le tappe più significative del tuo percorso artistico?
    Sicuramente due esperienze all’estero che ho fatto negli anni che sono state di grande stimolo: la prima in Russia nel 2013 e la seconda in Iran nel 2018.
    Nel 2013 fui invitato, insieme all’artista Ciro Vitale, a partecipare alla Biennale d’Arte Contemporanea di Shiryaevo (Russia). Un’esperienza abbastanza totalizzante che mi ha arricchito molto e grazie alla quale ho avuto modo di conoscere artisti diversi con i quali sono ancora in contatto.
    Nel 2018 sono stato invece un mese a Tehran (Iran) perché ho vinto un concorso per una residenza artistica là. È stata un’esperienza che mi ha arricchito molto anche perché nel mio lavoro intreccio molto spesso temi legati alla religione e alla politica e l’Iran è un Paese molto caldo su queste tematiche, dove devi fare attenzione a ciò che dici e a ciò che esponi. Durante l’esposizione mi è infatti stato gentilmente indicato di non spingere troppo la mano su alcune tematiche perché là non vanno molto per il sottile.
    Noi qui siamo abituati ad avere libertà di espressione (anche se non piena e rotonda come ci vorrebbe!) rispetto alla politica, alla società… là no! Ci sono argomenti che sono completamente esclusi dalla ricerca artistica e anche questo è stato un metro di riflessione importante.
    A proposito di esperienze significative ci tengo anche a ricordare anche l’esperienza legata al collettivo Disturb (Distretto di studi urbano), un collettivo di artisti di cui facevo parte, insieme a Ciro Vitale e Franco Cipriano e con cui organizzavamo piccole mostre e conferenze.
    Nel raggio di tre, quattro anni abbiamo ospitato artisti provenienti da tutto il mondo e lì sono nate molte relazioni che mi hanno portato in Russia e molte relazioni con artisti di tutta Europa.
    Al di là della mia esperienza artistica personale, quella di Disturb è stata un’esperienza molto importante dal punto di vista culturale!
    Queste più o meno sono le cose che mi hanno formato di più e, adesso che le ho raccontate, noto che sono quelle che mi hanno dato modo di creare relazioni con artisti internazionali favorendo uno scambio culturale che mi ha arricchito molto negli anni anche perché io lavoro su tematiche anche internazionali.

    Data la tua esperienza lavorativa ed espressiva ritieni che abbia ancora senso, oggi, scindere i diversi linguaggi delle arti visive?
    In linea generale direi ovviamente di no! In generale penso che la distinzione tra le diverse discipline artistiche e la creazione di categorie e sottocategorie sia un qualcosa di imposto dalle regole del sistema dell’arte per alimentare un po’ quello che io chiamo il “baraccone dell’arte”.
    Detto ciò penso anche che non si possa comunque generalizzare perché dipende un po’ da come ciascuno vive il mondo dell’arte. Io, per esempio, ho sempre voluto conservare un’indipendenza di opera per avere la libertà di esprimermi come meglio credo.
    Ho anche preso dei periodi di pausa quando volevo e non ho mai voluto fare arte come unica attività lavorativa. Ho sempre voluto avere un lavoro separato ed avere poi questa mia finestra sull’arte che mi desse la possibilità di stare meglio con me stesso e nella società e di indagare le cose che emi interessano.
    Per cui, al di là della categoria di artista, mi sentirei più di fare una distinzione tra chi fa arte che parla di se stessa e chi fa arte per fare indagine, per fare sperimentazione.
    Il ruolo dell’artista è fondamentale nella risposta di questa domanda perché non tutti abbiamo gli stessi obiettivi.

    Cosa significa, per te, essere un artista oggi? Ti senti investito di una qualche responsabilità?
    Per come vedo io il ruolo dell’artista e per come piace a me lavorare con l’arte credo che il suo ruolo ideale sia quello di chi ha la possibilità d’interrogarsi liberamente sulle questioni che ci appartengono.
    Penso che oggi l’artista abbia un ruolo fondamentale nella società e che il suo lavoro sia totalmente collegato alla quotidianità.
    Sono convinto che la società contemporanea abbia la necessità di avere persone che siano capaci, attraverso linguaggi differenti, di capire il tempo in cui viviamo e che provino a fare opere che interroghino innanzitutto l’artista e che possano poi stimolare una serie di riflessioni su tematiche attuali che riguardano la collettività.
    Ad esempio, nella mostra che ho inaugurato da poco in Puglia ho portato un’opera che ha una serie di libri appesi alla parete le cui pagine possono essere sfogliate; 14 libri (14 come le Stazioni della Via Crucis) che raccontano la mia storia che è fatta da frammenti raccolti negli anni, con una serie di elementi che posso essere condivisi con il pubblico. Una storia che, da storia personale, diventa storia collettiva.
    L’artista contemporaneo ha un ruolo molto importante che deve saper conservare e sviluppare perché è una delle ultime figure della società che ha la possibilità di dire le cose diversamente.
    Mi piace pensare al ruolo dell’artista legato alla politica, alla sociologia, all’ambiente, all’immigrazione e alla povertà; tutti temi che attagliano l’uomo e che, secondo me, dovrebbero interessare l’artista, che dovrebbe mettere la sua arte a disposizione della collettività.

    Come pensi che le tue opere, spesso così tecnologiche, come ad esempio il video Skèpsis che esponi qui, possano trovare una connessione con il tema del sacro?
    Molte delle mie opere sono nate da una riflessione sul tema del sacro che è un tema che ho utilizzato spesso.
    Il video Skèpsis, ad esempio, è l’estratto di una video-installazione dedicata al tema dell’Ultima Cena (una delle iconografie religiose più conosciute al mondo), a cui ho voluto dedicarmi perché mi interessava lavorare con le nuove tecnologie su un tema a cui si erano dedicati, nei secoli, molti artisti.
    Nello specifico, quello è stato un lavoro lunghissimo e complesso dal punto di vista tecnico perché c’erano 12 monitor analogici e il linguaggio era molto astratto ed essenziale; ogni elemento degli Apostoli era un giro di metafore e simboli, ma allo stesso tempo è stato anche un lavoro molto affascinante.
    Quello dell’Ultima Cena non è stato l’unico tema religioso su cui ho lavorato; ho fatto una video-installazione ispirata al tema della Pietà intitolata Compianto e anche delle crocifissioni.
    La religione è un tema che mi ha sempre molto affascinato e a cui mi sono avvicinato per curiosità perché la religione accompagna l’uomo da sempre e noi oggi siamo quello che siamo, anche grazie alla religione.
    Mi interessa molto anche il rapporto tra religioni diverse.
    Non penso si debba essere necessariamente credenti per fare arte sacra, ma credo che ognuno debba fare un proprio percorso spirituale.
    Io personalmente ho fatto e sto facendo un mio percorso, ma non credo alla dottrina. Con una serie di riflessioni è però indubbio che, se tratto questi temi, è perché credo che in questi temi ci sia un veicolo di riflessione che mi aiuta a capire l’uomo e molte cose che vedo intorno a me. Può essere anche questa una forma di credenza; non una credenza cieca, ma un indagare su tematiche religiose per capirle a fondo.
    Quando sono stato in Iran ho avuto anche modo di approfondire un’altra religione che è abbastanza presente in ogni ambito della società; una religione che, sia fisicamente che metaforicamente, copre, oscura l’uomo.
    Lì già faccio più fatica a capire dove arrivi il credo di una religione che toglie di fatto delle libertà all’uomo considerando la figura divina al di sopra di ogni cosa, costi quel che costi.
    Queste sono tematiche molto ampie e le considerazioni che si possono fare e gli approcci che si possono avere sono molteplici.

    Per questa mostra esponi anche Reliquario. Puoi spiegarci la genesi di quest’opera e il suo significato?
    Ho scelto di intitolare quest’opera Reliquario perché è una conservazione di un’altra opera realizzata in precedenza. Nello specifico, nel 2005 feci un’installazione spaziale ispirata al tema religioso della Pietà, intitolata Compianto.
    Tra i vari elementi che componevano l’installazione c’era nel dettaglio video una donna anziana (nello specifico si trattava di mia nonna che non c’è più) che compiangeva un ragazzo morto sul modello iconografico della Pietà.
    Era una donna anziana qualunque che compiangeva il proprio figlio morto in qualsiasi posto del mondo; era un tentativo di unificare, anche diverse religioni, sotto il segno del dolore umano. Che quel ragazzo morto fosse il Cristo Morto della Pietà, o un ragazzino morto nella Striscia di Gaza a causa dei bombardamenti israeliani, per me faceva poca differenza.
    Ciò che mi interessava era andare oltre l’icona religiosa per focalizzare l’attenzione sul dolore umano e sul valore della perdita, al di là della religione e della geografia.
    All’interno di Reliquario si trovano concettualmente tutti gli elementi che erano presenti in Compianto che negli anni ho conservato e poi ricomposto, dandogli una nuova collocazione, una nuova vita.
    Queste reliquie non sono però sigillate, ma chiuse tra due vetri con delle pinzette da carta il che significa che se tu le apri questi frammenti si decompongono e magari possono ricomporsi in maniera diversa per generare una nuova opera.
    Non è tanto l’oggetto in sé che si trova nel reliquario che mi interessa, ma è tutto ciò che si porta dietro. Aprendone due e scambiando gli elementi dentro posizionandoli in modo diverso dai una nuova collocazione agli oggetti e quindi quelle tematiche trovano una nuova collocazione anche concettuale.
    È un lavoro molto mentale, però dentro c’è il tema della conservazione, il tema del tempo, il legame affettivo con il tema della Pietà e con mia nonna.

    Cosa ti ha spinto a partecipare al bando di selezione per il Premio Paolo VI per l’arte contemporanea?
    Ho partecipato al bando senza difficoltà e con molto piacere. Cosa mi ha spinto a partecipare? La risposta sta in tutto quello che ti ho detto fin qui: il legame con il tema religioso che mi affascina molto, la storia di Paolo VI che conoscevo e che faccio un po’ mia e il ruolo dell’artista di cui abbiamo parlato. Sono solito partecipare ai concorsi solo se mi sento stimolato e se c’è una sfida da affrontare e quando ho letto il bando ho pensato si trattasse di un progetto pienamente in linea con il mio lavoro.


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