Cronaca di Napoli

Clan Amato-Pagano, la faida delle “mesate”: gli "indesiderati" di Debora Amato cacciati da Scampia

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A Napoli, la faida interna del clan Amato-Pagano si intensifica dopo l'arresto di 11 membri, evidenziando un clima di paura e tensione tra le famiglie di Scampia, dove le dispute su controllo e "mesate" minacciano la stabilità del territorio e la quotidianità dei residenti.

Napoli - Dall'analisi delle 84 pagine dell'ordinanza cautelare, firmata dal gip Isabella Iaselli che l'altro giorno ha portato in carcere 11 esponenti del clan Amato Pagano emerge il quadro di una cosca attraversata da una guerra interna di nervi.

La reggenza “nuova” di Debora Amato e il marito Domenico Romano cerca di rimettere ordine e controllo su uomini, zone e “mesate”, mentre vecchi referenti e gruppi territoriali reagiscono tra sospetti, intimidazioni e messaggi armati.

Il racconto giudiziario, costruito soprattutto su intercettazioni, restituisce il volto quotidiano del potere camorristico: decisioni prese al telefono, litigi su soldi e gerarchie, paura nelle famiglie, e sullo sfondo la macchina dello spaccio tra Scampia (Sette Palazzi, Chalet Bakù) e l’area nord (Mugnano, Melito, Arzano).

La nuova reggenza e la frattura

Gli investigatori sono riusciti a ricostruire e documentare come la nuova reggenza, ricondotta a Debora Amato e al compagno (poi marito) Domenico Romano, manifesti insofferenza verso parte dei “vecchi” e in particolare non ripone fiducia in Luigi Diano, indicato come capo del gruppo ai Sette Palazzi.

È qui che la linea del potere si spezza: Diano Luigi viene “allontanato” e, al suo posto, la reggenza richiama a Mugnano Arturo Vastarelli, figura che tuttavia non taglia i ponti con Diano e anzi mantiene contatti e si mostra critico soprattutto sulle questioni economiche legate alle mesate.

Quel dettaglio – la mesata – diventa una chiave narrativa e investigativa: perché nella logica del clan non è solo un “sostegno”, ma il termometro della fedeltà e della disciplina, oltre che uno strumento di governo dei gruppi e dei territori.

Scampia, il messaggio di piombo

La tensione esplode e si materializza in strada l’1 giugno 2024, quando a Scampia, in via Antonio Labriola, Vincenzo Bellezza (incensurato) viene ferito alle gambe: un episodio che, nelle conversazioni intercettate, viene letto come un’azione con un bersaglio diverso, probabilmente “il Nano”, cioè Silvio Padrevita, uomo collegato al gruppo di Luigi Diano  e poi trasferito a Mugnano.

La dinamica – un ferito “sbagliato” e un obiettivo che resta in ombra – è tipica dei regolamenti di conti o dei segnali punitivi in contesti camorristici, e l’ordinanza la usa per misurare la temperatura di una frattura già aperta.

Le intercettazioni mostrano l’immediato effetto domino: telefonate concitate, inviti a non muoversi, raccomandazioni di restare chiusi in casa, e la percezione che “non si è sistemato nulla”.

Il quadro che ne esce non è quello di un episodio isolato, ma di un punto di non ritorno nei rapporti fra i gruppi: i dialoghi ruotano attorno a chi “è sceso”, a chi rischia, a chi deve parlare direttamente con chi comanda, e soprattutto al timore che una parola sbagliata o un movimento fuori tempo possa trasformarsi in una condanna.

Famiglie in trincea: la paura come prova

Il cuore più “giornalistico” di questi stralci sta nelle conversazioni domestiche, dove la strategia del clan incrocia la fragilità delle famiglie. Giulia Barra (moglie di Arturo Vastarelli) parla con la figlia Immacolata e lascia filtrare il clima: notti insonni (“stiamo a smanetta”), inviti a far restare a casa “Genni” (Gennaro), e l’idea che ormai “le cose non stanno bene più qua”.

In quel racconto c’è la grammatica del territorio: vacanze già programmate (Baia Felice) che diventano un problema perché anche un bambino, senza capire, può dire in giro dove andranno; comunioni e ristoranti che saltano o vengono svuotati “per il bordello che ci sta”; e la descrizione della paura di Ersilia Salvati, moglie di Diano Luigi, presentata come terrorizzata al punto da impedire al marito di uscire.

L’ordinanza valorizza proprio questo: la paura non come “contorno”, ma come elemento che prova la natura e l’intensità dello scontro e il controllo sociale esercitato dal clan.

“Operazione San Gennaro”: pacificazione di facciata

Dopo la sparatoria e le ore concitate, le conversazioni intercettate descrivono una fase di ricomposizione: incontri “al solito posto”, rassicurazioni (“tutto a posto”), linguaggi in codice (“il mare calmo”), e la ricerca di un equilibrio che sembra reggere più per necessità che per convinzione. È una pacificazione che l’ordinanza fa apparire fragile: in sottofondo si coglie ancora rabbia (“fanno schifo tutti quanti… gli ho dato l’anima”), e il bisogno di controllare spostamenti, auto, presenze, come se ogni dettaglio potesse diventare una prova o un bersaglio.

In questo periodo si inserisce anche il “rito” della normalizzazione pubblica: matrimoni e cerimonie diventano terreno di misurazione dei rapporti, con inviti, presenze e assenze che valgono quanto una dichiarazione di fedeltà.

L’ordinanza annota, ad esempio, il matrimonio del 13 giugno 2024 legato a Monica Amato e Domenico Belardo, e la partecipazione di Luigi Diano e Arturo Vastarelli come segnale che “i contrasti sono superati”. Ma anche qui il racconto intercettato è più ruvido: Ersilia Salvati non si fida, teme “facce verdi”, si sente ignorata, e il risentimento resta sotto pelle.

La resa dei conti sulle mesate

Quando la frattura si sposta sul piano economico, l’ordinanza sembra indicare un salto di qualità: non più solo tensioni “di rispetto”, ma il controllo delle risorse. La questione della mesata – la somma periodica che, nel lessico di clan, sostiene e vincola – riemerge come detonatore: Vastarelli viene descritto come un uomo che si sente “storico”, addirittura fondatore di un “impero” (così nelle parole attribuite a Barra), e che non accetta di essere trattato come un subordinato sacrificabile.

Il punto di rottura definitivo arriva nel settembre 2024: Vastarelli racconta a Luigi Diano un episodio in cui viene “cacciato” (“non mi servi… te ne puoi andare”), in un contesto con numerose presenze e soprannomi che l’ordinanza identifica (tra cui “Scimmione”, indicato come Maurizio Errichiello, e “il Cecato”, indicato come Raffaele Capasso).

La scena, così come traspare dalle intercettazioni, è una umiliazione rituale: muso a muso, toni minacciosi, l’ordine di allontanarsi e persino l’indicazione che se visto “nelle zone nostre” debba essere cacciato. È qui che il clan, nella lettura giudiziaria, mostra la sua natura di apparato che governa anche tramite l’espulsione e la paura, ridefinendo confini e appartenenze.

Subito dopo, Giulia Barra, parlando con la moglie di un detenuto, lega l’espulsione alla mancanza di sostegno economico (“stiamo senza niente… senza mesata”) e a un’immagine di gestione predatoria: qualcuno che “si deve abbuffare tutto lui”. Nello stesso flusso narrativo compare anche il riferimento a Enrico Bocchetti (marito di Virttoria Pagano, figlia del boss Cesare) come figura che, se dovesse tornare in campo, potrebbe riequilibrare o ribaltare i rapporti, a riprova di una catena di comando percepita come instabile e contendibile.

Il clan come azienda: fabbrica, zone e regole

L’ordinanza, attraverso quei dialoghi, compone un’immagine quasi “aziendale” del potere: chi comanda decide chi lavora, dove lavora, chi incassa e chi prende la mesata. In questa cornice, Domenico Romano viene descritto come colui che, dopo il matrimonio con Debora Amato, “si sente padrone dell’azienda della moglie” e pretende di imporre le proprie regole, stabilendo operatività per zona e distribuzione delle risorse.

E quando il comando prova a centralizzare, scattano reazioni: sospetti su Debora (“secondo me Debora non sa niente”), accuse dirette contro il marito (“lo scemo”), e l’idea che la catena decisionale sia diventata opaca, al punto da far sperare nell’intervento di figure “più competenti” o nel ritorno di un altro “masto”. È il racconto di un’organizzazione che, pur mantenendo il controllo del territorio, vive conflitti di successione e di gestione interna, con un’ossessione per la legittimazione e la disciplina.

Le piazze e la “cassa”: Scampia, Bakù e Sette Palazzi

La parte finale degli stralci amplia il quadro e collega la frattura interna all’attività principale: lo spaccio. Viene richiamata una precedente ordinanza (eseguita il 12 novembre 2024) che – nella ricostruzione – darebbe conto di gravi indizi sulla partecipazione di  Luigi Diano a un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, attiva per conto del clan sulle piazze di Scampia (Chalet Bakù e Sette Palazzi) e sul territorio di Mugnano e Melito.

Le intercettazioni ambientali al “Circolo H24 1926” e quelle in auto mostrano un lessico da mercato: ingaggi (“ti do 300 euro al giorno”), quantità, prezzi, rischi di esposizione allo Chalet, e l’esigenza di “case” o luoghi più sicuri per lavorare senza finire sotto gli occhi di tutti. In quel micro-mondo si capisce anche perché le mesate contano tanto: la piazza produce cassa, la cassa produce stipendi interni, e lo stipendio tiene insieme l’organizzazione; quando la cassa viene gestita male o percepita come appropriata da pochi, la guerra interna diventa inevitabile.

(nella foto da sinistra Debora Amato, il marito Domenico Romano, Enrico Bocchetti, Luigi Diano e Arturo Vastarelli)

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Fonte REDAZIONE

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  • L'articolo fa vedere come la situazione a Scampia sia complicata e piena di conflitti. I membri del clan sembrano non avere una strategia chiara e le tensioni aumentano, mettendo in pericolo le famiglie. Bisogna trovare un modo per ridurre la violenza.

Pubblicato da
Giuseppe Del Gaudio