

Nella foto l'ingresso del carcere di Santa Maria Capua Vetere
Napoli– Entra nel vivo il maxiprocesso per le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Sul banco dei testimoni sale uno degli imputati chiave, l'uomo il cui cognome dà il titolo all'inchiesta che vede 105 persone a giudizio tra agenti, funzionari e medici: Salvatore Mezzarano, all'epoca dei fatti (6 aprile 2020) ispettore al Reparto Nilo.
La sua è una testimonianza tesa, ambigua, sospesa tra l'ammissione di colpa e l'autodifesa. Davanti ai giudici e ai PM, Mezzarano non nega il caos di quel giorno: "Ho visto frizioni, anche degenerazioni, e una confusione totale".
Incalzato dal pm Alessandro Milita, Mezzarano traccia il perimetro delle sue responsabilità, ammettendo due episodi specifici ma minimizzandone la portata. "Colpii sul gluteo un detenuto", confessa. "Per un secondo detenuto, ho sbattuto il manganello a terra vicino ai suoi piedi".
Immediatamente, però, arriva la giustificazione e le scuse, rivolte anche direttamente al pubblico ministero: "Mi scuso per ciò che ho fatto, anche con lei dottore. Ma erano gesti dissuasivi, che ho fatto anche per una cattiva percezione della situazione. I miei gesti non erano tesi a fare male".
La sua difesa, infatti, si basa su un rovesciamento dell'accusa. Se molti detenuti lo indicarono inizialmente come uno dei più violenti, l'ispettore ora rilancia: "Ma ho difeso decine di persone, posso giurarglielo".
Un punto cruciale del processo è il presunto "depistaggio": il ritrovamento di bastoni e oggetti offensivi nelle celle, che secondo l'accusa sarebbe servito a giustificare ex post la "perquisizione straordinaria" poi degenerata in mattanza.
Mezzarano offre una versione differente. Ammette di aver "firmato il verbale di sequestro", ma precisa: "Bastoni e altri strumenti atti ad offendere non li ho visti". Quegli oggetti, secondo la sua testimonianza, non sarebbero legati al 6 aprile, ma alla protesta dei reclusi della sera precedente (5 aprile), scoppiata dopo la notizia di un caso Covid.
L'aula ha trattenuto il fiato quando si è parlato di un messaggio ricevuto da Mezzarano l'8 aprile, due giorni dopo i fatti, dalla Commissaria Anna Rita Costanzo (anch'essa imputata, ma avvalsasi della facoltà di non rispondere).
Mezzarano conferma la circostanza: la commissaria "gli chiedeva di fare cose illecite". Il contenuto è agghiacciante. "Era un messaggio stupido", ricorda l'ispettore, "come mettere l'olio bollente. A cui però non ho dato seguito". Una frase che, se confermata, getterebbe un'ombra ancora più cupa sul clima di quei giorni.
L'ispettore, che per questi fatti ha scontato oltre 4 mesi di carcere, punta il dito contro i colleghi venuti da fuori. La perquisizione, spiega, fu effettuata soprattutto da agenti con caschi e manganelli provenienti da altre carceri campane (Secondigliano e Avellino), guidati dal dirigente Colucci.
Mezzarano dichiara di aver notato subito che questi ultimi avevano "un atteggiamento non buono, autoritario, con propensione a violenza". E perché non denunciò nulla? "C'erano i dirigenti, dovevano essere loro a coordinare l'aspetto burocratico. Ho dato per scontato che l'avrebbero fatto".
La testimonianza di Mezzarano non è solo parole. Nel corso del controesame, i suoi difensori, gli avvocati Giuseppe Stellato ed Edoardo Razzino, hanno giocato la loro carta più pesante. Hanno fatto emergere 14 episodi specifici, "tracciati" e documentati sia dai video interni del carcere sia dalle dichiarazioni di altri detenuti, in cui l'ispettore avrebbe attivamente aiutato le vittime, in alcuni casi frapponendosi fisicamente tra loro e gli agenti esterni, quelli "con caschi e manganelli", che infierivano sui reclusi.
L'ispettore Mezzarano, dunque, carnefice o protettore? La sua testimonianza lascia aperti molti interrogativi, consegnando alla corte un ritratto complesso e contraddittorio, specchio della "degenerazione" che lui stesso ha ammesso di aver visto.