Avellino - Quando gli agenti lo sorpresero ancora una volta nel corridoio, il telefono stretto tra le mani, Giovanni Limata non era un detenuto qualunque. Aveva ventisette anni, veniva da Cervinara, e il suo nome era già legato a uno dei delitti più sconvolgenti degli ultimi anni ad Avellino: l’omicidio di Aldo Gioia, 53 anni, padre della sua fidanzata Elena.
Il carcere di Bellizzi Irpino, con i suoi rumori ovattati e le porte metalliche che si chiudono sempre allo stesso modo, avrebbe dovuto essere il luogo della fine. Fine della storia, fine del piano, fine dell’ossessione.
E invece Giovanni, dal chiuso della sua cella, non aveva smesso di cercare la famiglia della sua vittima. Un cellulare di ultima generazione bastava a riportarlo fuori, a superare grate e cancelletti, a far arrivare messaggi e avvisi fin dentro la vita di chi credeva, forse, di avere già pagato abbastanza.
Una condanna, due destini
La storia giudiziaria sembrava chiara. I processi si erano celebrati, le sentenze erano arrivate.
Elena Gioia: 18 anni di reclusione, condanna definitiva.
Giovanni Limata: 16 anni, dopo il terzo grado di giudizio.
Sulla carta, il capitolo era chiuso. Un uomo ucciso in casa, una figlia coinvolta nell’omicidio del padre, il fidanzato come esecutore. Una coppia sul banco degli imputati, due destini incatenati per sempre a una notte di aprile.
Ma le carte dei processi, le perizie, le chat sequestrate raccontano qualcosa di più complicato di una semplice storia di “amore e morte”. Raccontano una relazione che si nutre di fantasie estreme, una complicità coltivata a distanza, un progetto omicidiario pensato e ripensato, corretto, rinforzato, fino a diventare realtà.
Messaggi oltre le sbarre
Prima di essere trasferito a Santa Maria Capua Vetere, e poi ancora nel carcere di Fuorni, a Salerno, Giovanni ha continuato a usare quel cellulare. Non per cercare lavoro o distrarsi con video e canzoni. I messaggi arrivano alla moglie di Aldo Gioia, alla donna che ha perso il marito in quella notte del 23 aprile 2021.
Le notifiche sullo schermo, i profili social che si illuminano, il nome di Giovanni che ricompare dove non dovrebbe più esserci. È come se quella lama, una volta deposta, fosse diventata digitale. Il coltello si è trasformato in parole, ma l’effetto resta simile: l’intrusione, la paura, la sensazione che quella storia non voglia spegnersi mai.
Per gli agenti del carcere “Antimo Graziano” di Avellino, Giovanni è un problema continuo. Non solo perché viene sorpreso più volte con il cellulare in mano, ma perché la sua presenza online, dal carcere, è il segnale che il confine tra dentro e fuori, per lui, è ancora troppo sottile.
Il ragazzo che voleva sparire
Dietro le sbarre, Giovanni non è solo il “killer di Aldo Gioia”. È un ragazzo a cui la vita si è spezzata in due. Nel carcere di Avellino tenta due volte il suicidio. Due tentativi, due richiami di un dolore che non riesce a contenere, due fughe mancate da un presente insopportabile.
Ricoverato per lungo tempo, osservato, valutato, Giovanni mostra una personalità fragile e allo stesso tempo pericolosa. Gli psichiatri parlano di sindrome borderline, di tratti antisociali, di una dipendenza da sostanze – crack, soprattutto – che ha scavato dentro di lui. Ma quando devono rispondere alla domanda decisiva – “era capace di intendere e di volere?” – la risposta è sì.
È lucido, dicono. Sa cosa fa. Sa cosa ha fatto.
E questo, forse, è il punto più inquietante: non è un folle ignaro, ma un giovane che sceglie, pianifica, partecipa.
Una relazione che vive di schermo
Per capire come si arriva a un piano di sterminio in famiglia, bisogna tornare a prima del sangue, quando tutto avviene dietro uno schermo. Nel processo di primo grado, davanti alla Corte d’Assise di Avellino, le parole usate dai consulenti sono pesantissime: tra Elena e Giovanni c’è una “relazione virtuale psicotica”.
Le loro chat non sono semplici conversazioni tra fidanzati. Sono un mondo a parte, una bolla che si chiude su di loro. Messaggi che diventano un rifugio e insieme un laboratorio del crimine.È lì, in quelle conversazioni, che la realtà comincia a deformarsi.
Lo psichiatra Giuseppe Sciaudone, incaricato dalla Corte, studia per settimane le loro parole. Nelle 25 pagine della sua relazione scrive che entrambi, Elena e Giovanni, sono perfettamente in grado di partecipare al processo, di capire ciò che hanno fatto. Non sono psicotici, non vivono in un delirio che li separa dal mondo.
Eppure, proprio nelle chat, si vede come i confini tra fantasia e progetto si sfumano. Quello che all’inizio è solo sfogo, rabbia, invenzione, con il passare dei giorni assume i contorni di un piano vero.
“Si contagiavano e si potenziavano”
Gli esperti usano un’espressione che racconta molto della dinamica tra i due: “si contagiavano e si potenziavano”.
Succede così: uno lancia l’idea, l’altro la rilancia.Potrebbe interessarti
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Elena, che vive quotidianamente il rapporto con la famiglia, porta dentro la chat il suo rancore, la sua insofferenza, la sua voglia di scappare. Giovanni, che la guarda da fuori, si propone come soluzione estrema: lui può tagliare quel legame, lui può distruggere ciò che lei sente come una gabbia.
Nelle conversazioni, la coppia comincia a parlare di fuga, di matrimonio, di una vita insieme “liberi da tutti”. Ma quella libertà, nelle loro teste, passa per una via inquietante: sterminare la famiglia di lei.
Il messaggio del 17 aprile
Il 17 aprile 2021 è una data chiave.Quel giorno, Giovanni invia a Elena un messaggio che per i consulenti segna una svolta.
In quelle righe, lui si veste da eroe – ma un eroe oscuro, negativo. È pronto a fare “il peggio” pur di “salvarla”. Nella mente di Giovanni, Elena diventa una Cenerentola da strappare alla sua casa, ai suoi “aguzzini”. Il problema non è più la sofferenza emotiva della ragazza, ma chi le sta intorno.
La proposta è chiara: sterminare la famiglia.
Elena all’inizio esita, sembra tentennare, come se una parte di lei ancora rifiutasse l’irreparabile. Ma poi, lentamente, quella resistenza si piega. Nelle chat, accetta.
Cinque giorni prima del delitto, succede qualcosa di inatteso: è Giovanni ad avere un ripensamento. Forse la realtà, per un momento, torna a farsi spazio in mezzo alle fantasie. Forse l’idea del sangue comincia a pesare. Ma stavolta è Elena a spingerlo. Gli dà “carta bianca”. Non si tira indietro. Il progetto diventa reciproco, condiviso. È una follia in due.
Un piano in sette giorni
Da quel 17 aprile, il tempo corre veloce.
Nel giro di una settimana, il progetto omicidiario prende forma. Non è più solo un racconto a due voci, è una tabella di marcia.
Elena si occupa della logistica. Sa a che ora il padre rientra, quando si siede sul divano, quando la casa è più vulnerabile. Sa come permettere a Giovanni di entrare senza destare sospetti.
L’idea iniziale è radicale: non colpire solo il padre, ma l’intera famiglia. È un piano che contempla l’eliminazione di tutti, la cancellazione del nucleo familiare. Davanti ai giudici, questo punto pesa come un macigno: non è stata una lite degenerata, non è stato un raptus. È stato un proposito coltivato, masticato, preparato.
Intanto, nelle loro chat, Elena e Giovanni si vedono già oltre: sposati, insieme, lontani da Avellino e da quella casa. Una fantasia che i consulenti definiscono “puerile” e “inconcepibile”, ma che per loro assume i contorni di un futuro possibile.
La notte del divano
Il 23 aprile 2021, la casa dei Gioia sembra la stessa di sempre.
Aldo è sul divano, si è assopito. È un’immagine comune, quasi rassicurante: un padre che si riposa nella propria casa, nel luogo che dovrebbe essere il più sicuro.
Elena scende con un sacchetto in mano. Dice che va a buttare l’immondizia. È un gesto normale, che non insospettisce nessuno. Ma quella sera, fare quel gesto significa aprire un varco. Il portone rimane socchiuso.
Giovanni entra. Salgono insieme. Quando arrivano davanti alla porta, Elena si ferma. Oltre quella soglia, tocca a lui.
Dentro, il tempo si fa rapido e confuso. Limata si avvicina al divano, impugna il coltello. Colpisce.
Aldo, nel sonno, avverte qualcosa. Si sveglia, reagisce, prova a difendersi come può, usando le gambe per allontanare l’assalitore. È un gesto istintivo, ma sufficiente a scompaginare il piano originario. Giovanni non riesce ad andare fino in fondo con l’idea di sterminare l’intera famiglia.
Quello che resta, però, è comunque irreparabile: un uomo morto, una figlia coinvolta nel suo omicidio, un fidanzato assassino. È il punto in cui la fantasia e la chiacchiera di chat si sono fuse con la realtà. E non c’è più modo di tornare indietro.
Il piano che non si chiude
L’omicidio di Aldo Gioia è stato organizzato in sette giorni e compiuto in pochi minuti. I processi hanno ricostruito, spiegato, incasellato. Le sentenze hanno messo numeri sulla colpa, anni di carcere su nomi e cognomi.
Eppure, qualcosa del piano non si è mai veramente concluso.
Il ragazzo visto nei corridoi con il cellulare, il detenuto che invia messaggi alla moglie dell’uomo che ha ucciso, il profilo che riappare nei social: tutto questo dice che, almeno nella testa di Giovanni, la storia continua. La lama non scende più sul divano di un salotto, ma prova a colpire ancora, a modo suo, chi di quella notte porta già una ferita che non si rimargina.
È una vicenda che parla di un amore malato, nato e alimentato online, cresciuto dentro lo schermo fino a sfondarlo. Una storia che mostra quanto sottile possa essere il confine tra il virtuale e il reale, tra il “ti ammazzerei” detto in chat e il gesto che davvero toglie la vita a qualcuno.
Dentro una cella, con un telefono tra le mani, Giovanni Limata sembra non voler lasciare andare quel piano. Come se, anche dopo la sentenza definitiva, volesse restare l’ombra dietro la porta socchiusa di quella casa.






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