L’Essere & l’Umano: Campanile secondo Artenauta (di Isabella Tramontano)

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Venerdì 25 maggio c’è stato in scena al Teatro Diana (Nocera Inferiore) lo spettacolo “(in realtà solo apparente)*, liberamente tratto da ”Il povero Piero” di A. Campanile,
compagnia Artenauta Teatro, regia di Simona Tortora.

Il sipario si apre su un simil quadro di Magritte, alle nostre spalle un Terzo sesso con una mise anni ’30 dà il via allo spettacolo. In scena sagome mobili (gli attori) danzano edith piaf che non ha rimpianti.

Si piange un morto, ‘il povero Piéro’ (complimenti agli attori per la dizione, Téresa e Piéro adesso anche io li pronuncio alla perfezione), che nel testamento ha come unico desiderio il silenzio sul suo trapasso fino a funerali compiuti.
Da qui il via a una serrata e tempisticamente gradevole comicità, fatta di fraintendimenti e gag.
E di malinconia, perché dietro ogni battuta comica – è Campanile, ragazzi! – c’è dell’amara ironia e gli attori così giovani forse non sempre l’hanno colta e trasmessa: morire può dare brutte sorprese, soprattutto se si ha la sfortuna di resuscitare. E se si è avuta la presunzione di avere delle ‘volontà ‘.
La seconda parte della piece vede protagonista un Mattia Marino, il cui volto è già teatrale di per sé, scolpito e lattescente: lui è Piero. Si sveglie e si rende conto che troppi sanno che lui ‘era’ morto e che già tutti se lo sono spartito, ciò che di terreno gli apparteneva. Risponde con la saggezza di chi ha perso tutto (se per tutto si intende la vita) e con la misericordia verso quelli che son restati quando si crede di essere andati via e per sempre. Convincente quanto puo esserlo un attore a vent’anni, quando purtroppo o per fortuna non si è avuta ancora la paura di morire con i relativi ‘piani’ disperati che si possono fare.



    Poi sipario, col terzo sesso che torna e una danza di sagome purtroppo non sulla splendida e iniziale’ non je ne regrette rien’ (n.d.r. Traduzione ‘non rimpiango nulla’).

    Da mettere in evidenza: gli uomini magrittiani che hanno intarsiato lo spettacolo, deliziosi e non casuali. Magritte era un surrealista sui generis, voleva avere uno sguardo lucido sul mondo, niente di onirico o autoriferito. Scrisse ‘voglio rappresentare il silenzio del mondo’. Achille Campanile, lo stesso: c’è poco da ridere a pensarci, quando moriamo c’è già chi veramente ha deciso quali nostri orecchini o orologi son suoi, con la giustificazione morale del ‘per ricordo’ (all’epoca dei faraoni sarebbero rimasti a bocca asciutta e mani vuote); chi del nostro funerale farà un momento di incontro, con un vestito nero che sfina anche.
    Campanile come Magritte: vogliono dire la verità e lasciano allo spettatore di credere che sia surrealismo o comicità.

    forte e memorizzata la regia, la fotografia e le luci: applausi a Simona Tortora, Caterina Bruno, Peppe Petti, Massimiliano Marolda.

    A me, oltre il ‘povero Piéro’ è restata impressa la cameriera, tempisticamente perfetta e anche comicamente struggente: piangeva come se fosse un ‘suo’ morto, con partecipazione. Il dolore è contagioso, non c’è nulla da fare, hai voglia a leggere Freud e a ripetere come un mantra ‘soffri CON lui, ma non COME lui. Il dolore è uno sbadiglio.

    Indimenticabile anche e per motivi diversi, la portinaia.
    Premetto, nulla di personale con l’attrice, semplicemente una forte simpatia con la categoria e anni di osservazione (ho conosciuto 21 portieri tra casa dello studente e casa di mia madre (caserma)).
    Perché non indossava la ‘mantesina’ tipica delle portinaie? Mi sarei accontentata di un completo in jersey fiorato, di quelli che dopo poco puzzano, ma il lamé nero, boh. Poi quel fare minaccioso nella recitazione: i portieri sono i depositari di grandi segreti, ma in quanto tali non si impongono mai, sono evanescenti. Sono agenti segreti, 007 che invece di penne-pistole e auto di lusso, sono armati di scopa e paletta e guidano il taglia-erba, ma stessa discrezione. Silenziosi e sornioni come ‘chi sa’. E ripeto: mai laminati in orario di lavoro. Sui portieri non si transige con caricature, cancelleremo mitologie edilizie e il libro ‘l’eleganza del riccio’ avrebbe un’autocombustione. È peccato.

    Alla fine dello spettacolo mi son chiesta: una realtà solo apparente moltiplicata per se stessa per n volte, dà alla fine come risultato una realtà che piu reale non si può?
    Mi sa di sì, mi son risposta come una marzullo qualsiasi.


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