Cronaca Giudiziaria

Processo violenze in carcere: 18 archviazione, c'è anche l'agente suicida

Condivid

Napoli - Il 25 giugno scorso, nel parcheggio del carcere di Secondigliano a Napoli, un colpo di pistola rompe il silenzio. A premere il grilletto contro se stesso è Benito Pacca, 59 anni, agente di polizia penitenziaria, a un passo dalla pensione.

Un gesto estremo, improvviso, che ha lasciato colleghi e familiari nel dolore e nello sconcerto. Pacca, come confidato agli amici, era "turbato". La ragione del suo turbamento aveva un nome e un numero: l'indagine della Procura di Santa Maria Capua Vetere sui pestaggi del 6 aprile 2020 nel carcere della stessa città, in cui era iscritto nel registro degli indagati per abuso d'autorità.

Si professava innocente e sperava di uscirne presto. Oggi, a distanza di mesi, quella speranza si è trasformata in una sentenza di cui lui non potrà mai avere conoscenza.

 L'archiviazione arriva dopo la morte

Ieri, 5 dicembre, si è appresa la decisione del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere: archiviazione per 18 agenti penitenziari indagati nel cosiddetto "secondo filone" dell'inchiesta.

Tra loro c'è anche Benito Pacca. La richiesta era stata depositata dalla Procura lo scorso primo agosto. Per il magistrato, non ci sono gli estremi per procedere contro di loro. Per l'agente di Secondigliano, è una sorta di assoluzione postuma che, però, non cancella il dramma di una vita spezzata e i perché irrisolti che aleggiano sulla sua scelta.

Il giorno dell'inferno: 6 aprile 2020, carcere in lockdown

Per comprendere la portata del caso, bisogna tornare indietro nel pieno del primo, claustrofobico lockdown per Covid-19. Il 6 aprile 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, viene ordinata una perquisizione straordinaria nel reparto "Nilo", che ospitava circa trecento detenuti.

Per eseguirla, viene mobilitato un imponente dispiegamento di forze: circa trecento agenti. Tra di essi, non solo il personale in servizio fisso nell'istituto, ma anche componenti del Gruppo Operativo di Supporto (GOS), distaccati da altri penitenziari campani, principalmente da Secondigliano e Avellino. Quella che doveva essere una perquisizione degenera in ore di violenza. Secondo le accuse, i detenuti furono fatti passare per un "corridoio umano" di agenti che li picchiarono e pestarono per quasi due ore.

I due filoni delle indagini e il maxi-processo

L'indagine dei pubblici ministeri Alessandro Milita, Daniela Pannone e Alessandra Pinto si è sviluppata su due binari distinti. Il primo filone si è concentrato sugli agenti in servizio stabile a Santa Maria Capua Vetere, identificati principalmente grazie alle telecamere di sorveglianza interne (molti, in piena pandemia, non indossavano mascherine o caschi).

Questo ha dato vita al maxi-processo tuttora in corso davanti alla Corte d'Assise: 105 imputati, per lo più agenti, ma anche funzionari del Dap e medici, accusati di reati che vanno dall'abuso d'autorità alla tortura.

Il secondo filone ha riguardato invece gli agenti "esterni", quelli del GOS, più difficili da identificare perché spesso coperti da caschi e mascherine. Alla fine, le indagini ne hanno individuati una cinquantina. Per 32 di loro, il prossimo 29 gennaio si aprirà l'udienza preliminare davanti al Gup Angela Mennella (il "processo gemello"). Per i restanti 18, tra cui Pacca, il Gip ha invece firmato l'archiviazione.

 La voce del sindacato: "Memoria, dignità e processi mediatici"

"Sua tragica scomparsa è una ferita ancora aperta". Con parole cariche di partecipazione, i sindacalisti Ciro Auricchio (segretario regionale Uspp) e Giuseppe Moretti (presidente nazionale Uspp) commentano l'archiviazione di Pacca. Chiedono che sia "preservata la sua memoria" e gli venga riconosciuto il "suo valore umano e professionale".

La nota, però, va oltre il singolo caso e lancia un appello più generale: "Affrontare la vicenda con il massimo rispetto ed equilibrio, senza preconcetti". I due leader sindacali puntano il dito contro i "processi mediatici sommari" che, a loro dire, "possono arrecare danni alle persone e alle loro famiglie", mettendo "alla gogna" operatori che lavorano in "contesti estremamente complessi".

 Il "processo gemello" e l'attesa del prossimo 29 gennaio

Mentre il maxi-processo nel bunker di Santa Maria Capua Vetere prosegue da tre anni, si avvicina la prima udienza del suo "gemello". Il 29 gennaio, il Gup esaminerà le posizioni dei 32 agenti del GOS rinviati a giudizio. Per tutti è contestato l'abuso d'autorità; per una ventina anche l'aggravante della tortura.

A cinque di loro, inoltre, viene contestato il reato di falso referto medico, per essersi procurati documenti sanitari attestanti aggressioni subite dai detenuti, al fine di giustificare l'intervento. Un processo che si annuncia altrettanto delicato e complesso, dove la difesa degli imputati potrebbe far leva sulle dichiarazioni dei colleghi del primo processo, che hanno più volte indicato proprio gli agenti esterni come i più violenti.

 Un mosaico di dolore ancora incompleto

La vicenda delle violenze del 6 aprile 2020 resta un mosaico doloroso e frammentato. Da un lato, le sofferenze dei detenuti che denunciano pestaggi. Dall'altro, le vite sconvolte degli agenti, con un bilancio estremo come quello di Benito Pacca. Le archiviazioni chiudono un capitolo per alcuni, ma non per la giustizia, che prosegue il suo cammino nei due processi.

E non per l'istituzione penitenziaria, chiamata a fare i conti con una delle pagine più buie della sua storia recente, tra accuse gravissime, difese corporative e la necessità di verità e giustizia in un ambiente per sua natura opaco e sotto stress estremo. La pistola di Secondigliano ha spento una vita, ma ha anche acceso un riflettore su un dramma collettivo che attende ancora un suo pieno, difficile, risarcimento.

[riproduzione_riservata] Articolo pubblicato il [date] - [author] [fonte_combinata]
Pubblicato da
Giuseppe Del Gaudio