La Campania è una delle regioni più ricche d’Italia dal punto di vista gastronomico. Eppure, dietro piatti celebrati e ingredienti amatissimi, esiste un paradosso poco raccontato: molti prodotti vengono consumati ogni giorno, ma non possono essere venduti ufficialmente. Non perché siano pericolosi, ma perché non rientrano nei registri, nei disciplinari o nelle normative commerciali.
In Campania esistono alimenti “fantasma”, tramandati da famiglie, contadini e pescatori, che vivono solo nel consumo locale. Si trovano sulle tavole, non sugli scaffali. Non hanno etichetta, codice, né mercato. E proprio questo li rende autentici, invisibili e potentemente identitari.
Uno dei casi più emblematici è quello dei formaggi non registrati. Piccole produzioni familiari di caciotte, ricotte e stagionati realizzati con latte crudo, senza certificazioni ufficiali. Vengono consumati in casa o regalati, ma non possono essere venduti perché fuori dai parametri sanitari standardizzati, nonostante spesso abbiano alle spalle decenni di tradizione.
Lo stesso vale per alcune carni lavorate artigianalmente, come salumi fatti in casa, insaccati stagionali o preparazioni a base di maiale allevato per autoconsumo. Sono prodotti perfettamente integrati nella cultura rurale, ma assenti da qualsiasi circuito commerciale. Non sono illegali: sono semplicemente “non vendibili”.
Poi ci sono i prodotti del mare. In molte zone costiere si consumano specie ittiche locali, molluschi o crostacei pescati in quantità minime, non riconosciuti dai mercati ufficiali o esclusi per normative di tracciabilità. Pesce che si mangia da sempre, ma che non può essere esposto su un banco.
Un capitolo a parte riguarda le conserve casalinghe: pomodori, sottoli, sottaceti, legumi e salse preparate secondo rituali familiari. Sono il cuore della cucina campana, ma non possono essere vendute senza laboratori certificati, controlli e analisi. Così restano confinate alle dispense domestiche.
Esistono anche varietà agricole non censite: ortaggi, legumi o frutti coltivati localmente, spesso senza un nome ufficiale o con nomi dialettali. Non rientrano nei cataloghi sementieri, quindi non possono essere commercializzati legalmente, pur essendo consumati da generazioni.
Il paradosso è che molti di questi prodotti sono più naturali e controllati di quelli industriali, ma non hanno voce nei registri. La legge tutela il consumatore, ma finisce per cancellare micro-identità alimentari che non riescono ad adattarsi alla burocrazia moderna.
Come ha detto un anziano contadino del Vesuviano:
“Quello che mangiamo noi non è clandestino. È solo più antico della legge.”
Questa frase racconta meglio di qualsiasi norma il senso di queste produzioni. Non sono abusive, sono semplicemente fuori dal tempo regolamentato. Vivono nella dimensione della fiducia, della prossimità, del “so chi me lo dà”.
Negli ultimi anni si parla di recupero delle produzioni tradizionali, ma il percorso è complesso. Registrare un prodotto significa adattarlo, standardizzarlo, spesso snaturarlo. E non tutti sono disposti a farlo.
Così la Campania continua a mangiare ciò che non può vendere. Un patrimonio silenzioso, quotidiano, che sopravvive lontano dai marchi e dai mercati, ma che racconta più di qualsiasi etichetta cosa significhi davvero mangiare un territorio.
E forse è proprio questa la sua forza: esistere senza bisogno di essere certificato, continuando a vivere nelle cucine, nelle mani e nella memoria di chi lo prepara ogni giorno.
Fonte REDAZIONE





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