

Alcuni degli imputati
E' iniziato oggi e subito rinviato al 17 dicembre processo il processo con rito abbreviato davan ti al gip Francesca Bardi del Tribunale di Napoli, ai due clan della zona vesuviana costola del clan Mazzarella che gestivano gli affari illeciti tra Somma Vesuviana e Sant'Anastasia.
In quella data si procederà all'ascolto di eventuali dichiarazioni da parte degli im putati e poi si andrà al 21 gennaio 2026 per l'eventuale requisitoria e richiesta di condanne da parte del gip.
Somma Vesuviana e Sant’Anastasia, due comuni confinanti, due facce della stessa medaglia criminale. L’indagine — frutto di anni di lavoro tra DDA di Napoli, carabinieri e guardia di finanza — mette in luce un quadro ancora preoccupante.
Una ragnatela criminale che da Somma Vesuviana arrivava fino al cuore di Napoli. Al vertice del gruppo, secondo gli inquirenti, Giovanni De Bernardo, figura storica della malavita locale, ritenuto punto di riferimento per il clan Mazzarella.
Attorno a lui, una fitta rete di uomini di fiducia, tra cui Antonio De Bernardo, Carmine Panico, Pasquale D’Avino, Antonio D’Avino, Giuseppe Esposito, Pasquale Ambrosio, Ciro Rinaldi e altri nomi che ricorrono nei verbali delle indagini.
L’accusa è pesante: associazione di tipo mafioso, aggravata dal metodo e dalle finalità camorristiche. Il gruppo avrebbe imposto un vero e proprio controllo sul territorio di Somma Vesuviana, gestendo le estorsioni ai danni dei commercianti, la riscossione del “pizzo” e la spartizione degli introiti derivanti da attività illecite.
Secondo gli atti d’inchiesta, gli affiliati si muovevano con disciplina e gerarchia: un capo riconosciuto, regole interne, uso della forza e della minaccia per mantenere il dominio sulla piazza. In alcune intercettazioni, i rapporti con elementi del clan Mazzarella emergono in modo chiaro: forniture di armi, sostegno reciproco nelle fasi più delicate e interventi per “aggiustare” conflitti interni o esterni.
Le accuse non si fermano alla sola appartenenza: per diversi imputati si contestano episodi specifici di estorsione aggravata, porto e detenzione illegale di armi da fuoco, minacce e favoreggiamento. In più casi, le intimidazioni sarebbero state accompagnate da colpi d’arma da fuoco esplosi a scopo dimostrativo, per riaffermare il potere del gruppo sul territorio.
Parallelamente all’organizzazione di Somma, gli inquirenti hanno ricostruito l’attività di un’altra struttura camorristica radicata a Sant’Anastasia, riconducibile al clan Anastasio.
Secondo la ricostruzione accusatoria, il gruppo — guidato da Salvatore Anastasio e da Giovanni Anastasio — avrebbe esercitato per anni il controllo economico e criminale della zona, in stretto contatto con le famiglie di Napoli Est e del Miglio d’Oro.
Anche qui, il copione è simile: estorsioni sistematiche ai danni di commercianti e imprenditori locali, violenze e minacce per imporre la propria supremazia, e un sistema di protezione interna capace di scoraggiare chiunque tentasse di denunciare.
Il clan, secondo la Procura, era strutturato con ruoli definiti: chi gestiva le riscossioni, chi si occupava delle armi, chi manteneva i contatti con altri gruppi criminali dell’hinterland.
Le indagini hanno documentato episodi di tentate estorsioni, di danneggiamenti a colpi di arma da fuoco e di intimidazioni nei confronti di commercianti che avevano osato sottrarsi al pagamento del pizzo.
L’accusa parla di un’associazione di stampo mafioso “stabile e radicata”, capace di condizionare la vita economica e sociale del paese, anche attraverso la paura e il silenzio.
Ora sarà il processo a stabilire le responsabilità individuali, ma la mole di capi d’imputazione restituisce un’immagine chiara: quella di un territorio ancora segnato dal potere delle famiglie e dalla fatica di chi, ogni giorno, prova a resistere alla logica del clan.