A Castellammare di Stabia, per convincere un imprenditore a pagare, non servono più soltanto le pistole. Bastano dei lumini accesi attorno alla sua casa, un simbolo sinistro, che parla da sé.
È così che il clan D’Alessandro continua a imporre la propria legge del terrore, come emerge dall’ultima inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli che ha portato a undici arresti.
Tra gli indagati c’è Massimo Mirano, 56 anni, meglio noto come 'o maccarone figura di riferimento del gruppo nella zona del rione Cicerone. Le intercettazioni lo inchiodano mentre descrive la logica criminale con disarmante naturalezza:
«Pagano tutti quanti, perché si prendono paura delle scoppettate», dice al telefono, riferendosi alle vittime del racket.
Le richieste di pizzo e le minacce
Secondo l’informativa della polizia, Mirano avrebbe preteso 3.000 euro da un imprenditore edile impegnato in lavori in via Roma, a Castellammare. Una somma che, per “direttiva” dei vertici del clan – Antonio Salvato e Francesco Abbruzzese – sarebbe poi salita a 4.000 euro.
Il denaro, secondo gli inquirenti, fu poi ritirato da un altro affiliato del clan, ancora non identificato.
L’inchiesta ricostruisce anche un altro episodio: una richiesta estorsiva da 10.000 euro, ridotta poi a 2.500, ai danni di un ingegnere – padre di una magistrata – la cui abitazione fu circondata da lumini funebri accesi come messaggio intimidatorio.
L’uomo viveva “al bivio di Scanzano”, zona collinare di Castellammare dove il clan controllava appalti e cantieri.
Le conversazioni intercettate
Le intercettazioni rivelano il tono confidenziale e spavaldo dei membri del gruppo. Mirano discute con un complice del sequestro, avvenuto il 16 ottobre 2024, di una pistola e 70.000 euro a casa di Antonio Salvato, uomo di fiducia dei D’Alessandro.
Durante la conversazione, l’interlocutore collega il sequestro al possibile esposto di un imprenditore estorto — “l’ingegnere con la figlia magistrato” — e ricorda l’episodio dei lumini sotto casa.
Ecco uno stralcio del dialogo, riportato integralmente negli atti:
Uomo: «L’ingegnere là sopra tiene la figlia che è magistrato… gli vennero ad accendere i lumini a terra intorno alla casa.»
Massimo: «E gli fecero l’estorsione?»
Uomo: «Eh, quelli da diecimila si sono presi duemilacinquecento… secondo me glieli ha dati pure, perché tiene la figlia che è magistrato.»
Massimo: «Pagano tutti quanti.»
Uomo: «Pagano tutti quanti.»
Massimo: «Perché si prendono paura delle scoppettate nel culo loro.»
Un linguaggio crudo, che racconta più di mille prove l’intimidazione sistematica, il dominio del clan e la convinzione d’impunità dei suoi affiliati.Potrebbe interessarti
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Il ruolo di Mirano nel clan
Dalle indagini emerge che Massimo Mirano aveva un ruolo attivo nelle attività estorsive del gruppo D’Alessandro. Era lui, spiegano gli inquirenti, ad avvicinare le vittime, valutare la consistenza dei cantieri e calibrare le richieste di denaro.
In un’altra intercettazione, Mirano si lamenta del comportamento di un imprenditore – chiamato “il chiattone” – che “dava appuntamenti e poi non si faceva trovare”.
Lo stesso Mirano, secondo quanto emerge, si sarebbe poi dedicato anche al traffico di stupefacenti, lamentando di guadagnare troppo poco dal racket.
Un sistema che dura da decenni
Il clan D’Alessandro, nato tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, continua a esercitare un controllo capillare su Castellammare e sui comuni limitrofi.
Le nuove generazioni di affiliati – secondo l’accusa – applicano le stesse regole dei vecchi padrini: intimidazioni, violenza e paura.
Il simbolo dei lumini funebri accesi sotto casa delle vittime è solo l’ennesima evoluzione di una strategia criminale antica: quella di trasformare la città in un cimitero morale, dove ogni rifiuto al clan si paga con la paura.






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