Napoli – L’Italia è stata nuovamente condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) per le condotte “inumane e degradanti” delle forze dell’ordine.
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La sentenza odierna, emessa dalla 1a sezione della CEDU, riguarda i fatti avvenuti a Napoli il 17 marzo 2001, durante una manifestazione “No Global”, e fa da preludio ai tragici eventi del G8 di Genova quattro mesi dopo.
Secondo quanto stabilito dal Tribunale di Napoli, decine di persone vennero condotte presso la Caserma Raniero in quelle che furono qualificate come modalità di “sequestro di persona”, dato che nessuna delle oltre 90 persone fermate venne poi denunciata per gli scontri in strada. Il trattenimento fu ritenuto “del tutto illegittimo” e il trattamento subito “inumano e degradante”.
Il caso esaminato dalla CEDU era stato promosso nel 2015 da un giovane avvocato che, pur avendo la sola “colpa” di aver accompagnato una manifestante in ospedale, fu schernito come “avvocatino” dai poliziotti.
Il suo cellulare venne distrutto sotto i piedi di un agente mentre tentava di contattare il padre, anch’egli avvocato. A fronte di “offese gratuite e maltrattamenti fisici”, nessuno dei poliziotti indagati ha subito conseguenze penali o disciplinari, con solo alcuni di loro che hanno ricevuto un “richiamo scritto”.
Nel corso della lunga procedura a Strasburgo, il Governo italiano aveva offerto 30.000 euro al ricorrente come ristoro per i danni morali e materiali subiti. Tuttavia, il giovane avvocato aveva subordinato l’accettazione di tale somma all’unione delle scuse ufficiali da parte del Governo italiano e dei due funzionari in servizio presso la Caserma Raniero quel giorno. Scuse che, come sottolineato, non sono mai state formulate, né pubblicamente né privatamente.
La Corte di Strasburgo ha preso atto che “il Governo ha inoltre sostenuto che quelli che ha descritto come ‘atti deplorevoli’ commessi da agenti di polizia durante le operazioni di identificazione costituivano reati e che lo Stato italiano aveva risposto adeguatamente, attraverso i tribunali, al fine di ripristinare lo stato di diritto, che era stato compromesso”.
Non avendo il Governo contestato quanto statuito dai tribunali nazionali, la Corte Europea ha ritenuto provati i maltrattamenti lamentati, affermando che il ricorrente è stato sottoposto a un trattamento contrario all’articolo 3 della Convenzione, inumano e degradante.
La CEDU ha inoltre precisato che “affinché un’indagine possa essere considerata efficace ai sensi dell’Articolo 3, dovrebbe essere in grado di portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili. In caso contrario, il divieto legale generale di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, nonostante la sua importanza fondamentale, sarebbe inefficace nella pratica e in alcuni casi sarebbe possibile per gli agenti dello Stato abusare dei diritti di coloro che sono sotto il loro controllo con virtuale impunità”.
La sentenza ribadisce l’importanza che “i procedimenti penali e la condanna non siano prescritti e che misure come la concessione di un’amnistia o di un indulto non siano ammissibili”. Inoltre, in caso di maltrattamenti da parte di agenti dello Stato, “è importante che egli o ella sia sospeso dal servizio durante l’indagine o il processo e licenziato in caso di condanna”.
La Corte ha concluso di non essere “convinta che la risposta delle autorità, in particolare per quanto riguarda le pene sospese e le pene accessorie e la non divulgazione sul casellario giudiziale, possa essere considerata adeguata in considerazione della gravità degli atti per i quali gli ufficiali sono stati condannati nella loro qualità di agenti dello Stato”.
Una condanna che riaccende i riflettori su episodi del passato e sulla necessità di una risposta effettiva e deterrente da parte dello Stato.
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