C’è una fatica che non fa rumore, che non lascia titoli in prima pagina ma segna la pelle e forgia l’anima. È quella che racconta Luciano Spalletti nel suo libro “Il paradiso esiste… ma quanta fatica”, scritto con Giancarlo Dotto e pubblicato da Rizzoli. Un’autobiografia sincera, essenziale, mai acida. Una storia che inizia dai campetti polverosi dell’Avane, periferia operaia di Empoli, e arriva alla vetta più ambita: la panchina della Nazionale. “L’ho fatto per lasciare ai miei figli il resoconto della mia vita – confessa Spalletti a Walter Veltroni – chi ha una storia da raccontare, ha il dovere di farlo”.
La sua è una vita vissuta senza filtri né scorciatoie, da timido solitario che convive con la sua terra e con sé stesso, lontano dalle vetrine e dai riflettori patinati. “A Montaione, da solo, sto benissimo. Con la mia terra, gli operai, le bestie. La solitudine mi fa compagnia”, dice l’attuale CT azzurro, che ha costruito il suo destino mattone dopo mattone, senza un procuratore, senza lustrini. “Vengo dai calli sulle mani, non dalle cascate di diamanti. E a volte mi sembra incredibile che mi paghino per fare ciò che amo”.
Il passaggio a Napoli, il suo capolavoro, resta il punto più alto della carriera. E anche il più doloroso. “Non dimenticherò mai la felicità e la malinconia di quel popolo, l’intensità con cui vive il calcio. Ma dopo lo scudetto non ci fu una telefonata, né un pullman scoperto. E questo mi ha fatto male”. C’è gratitudine per De Laurentiis, ma anche una ferita che non si è rimarginata.
Oggi Spalletti guarda avanti, guidando l’Italia con la stessa ossessione per il dettaglio con cui ha affrontato tutta la sua vita. E lancia uno sguardo anche all’Inter di Inzaghi, elogiando la crescita europea dei nerazzurri: “Li ho visti in Champions, sono all’altezza delle migliori”. Dietro tutto questo, rimane la visione di un uomo che crede nel valore autentico del calcio, nella passione che riempie le curve e che, a volte, può anche sfociare. Come quando, all’inizio della sua avventura napoletana, gli rubarono la Panda “per invitarlo” ad andarsene. Ma anche lì, Spalletti non recrimina. Guarda oltre, sempre. Con una voce bassa, ma che arriva lontano.