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‘Sangue agitato’, in scena al Teatro Bolivar domenica 22 gennaio

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La piéce, scritta da Antonio Marfella, dà il titolo all’intero dittico ed è ispirata al mito di San Gennaro e al Prodigio del Sangue.

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Domenica 22 gennaio, alle ore 19, al Teatro Bolivar (via Bartolomeo Caracciolo, 30), diretto artisticamente da Nu’Tracks, sarà la volta di “Sangue agitato”, lo spettacolo presentato da “Casa del Contemporaneo”, scritto da Antonio Marfella, anche in scena insieme all’attore Giampiero Schiano. Si tratta di un dittico teatrale, ispirato al mito di San Gennaro e al Prodigio del Sangue, che affianca fra loro le figure di due martiri sui generis: due agiografie congetturali, arbitrarie, comiche con un personalissimo tentativo di votarsi ai santi.

“I brani che compongono il dittico – racconta l’autore e attore Antonio Marfella – sono entrambi di matrice cristiana. Alle mie latitudini non è difficile sentire atei confessi erompere in esclamazioni tipo “Maronna mia d’o’Carmine!” in circostanze o di fronte ad eventi che stimolino meraviglia o timore. È una sintesi sbrigativa di quanto siamo intrisi di mitologia cristiana. Eppure, tale mitologia è pressoché ignorata dalla maggior parte dei teatranti. Per converso, a questa distrazione, fa da contraltare un’attenzione talvolta ossessiva verso i Miti Greci, con la conseguenza, per i teatranti, di essere più a proprio agio con Prometeo che con Gesù Cristo. Non escluderei che tale paradosso possa rappresentare una misura della distanza che intercorre fra teatranti e pubblico. Utilizzando fonti storiche, agiografiche, letterarie e iconografiche – prosegue Antonio Marfella – mi sono provato ad elaborare due moderne agiografie, collegabili fra loro in un unico percorso narrativo. L’intenzione era di rendere dialettico e attuale il racconto di coloro che, solo perché dichiarati Santi, sono diventati, ai nostri occhi, finti, scontati, monodimensionali, statue inespressive senza voce. Le pièces scaturite rappresentano biografie esemplari, inevitabilmente congetturali, innestate nella nostra contemporaneità”.

Sinossi:

Prima piéce

Le informazioni reperite sul conto del preteso San Gennaro uomo, sono assai scarne: Procolo Inuarium, vescovo di Benevento, si reca a Miseno, importante porto romano sulla costa occidentale del litorale flegreo, per portare solidarietà e assistenza al diacono Sossio, incarcerato dal proconsole della Campania Dragonzio, a causa delle funzioni religiose che quotidianamente celebrava nonostante i divieti. È l’ultima fase dell’impero di Diocleziano, quando la persecuzione contro i cristiani raggiunge l’apice della ferocia e si dà, per converso, ampia libertà e sostegno ai riti pagani, numerosissimi in tutta l’area flegrea. Non è escluso che, il temerario vescovo di Benevento, cercando di mantenere l’incognita, abbia voluto osservare da vicino qualcuna di tali manifestazioni, magari gli affollatissimi oracoli della Sibilla Cumana. Il martirio per decapitazione avvenuto a Pozzuoli, presso la Solfatara, il 19 settembre 305, ne fu l’inevitabile conseguenza. L’autore ha dunque dedotto un’agiografia congetturale fin oltre il limite dell’arbitrario, affidandone la narrazione ad un eretico da marciapiede, un presunto ex membro dell’Ordine di San Gennaro, espulso, appunto, per le eresie che va diffondendo. Questo solitario e solipsistico predicatore, si arrovella sul rapporto fra un martire innalzato a patrono senza averlo mai preteso, e una città pressoché impossibile da proteggere, fino ad arrivare al culmine di ritenere d’essere l’unico ad aver compreso il senso del Prodigio del Sangue. Questo vagabondo ossessivo e un po’ borioso, condivide con San Gennaro il fatto di non chiamarsi affatto Gennaro. Viene da chiedersi se sia davvero la sola cosa che condivide col martire.

La conclusione verso la quale si tende è che, il martirio di San Gennaro, per quanto ancora oggi celebrato e glorificato, sia invece clamorosamente incompreso. Incompreso quanto il protagonista della seconda piéce che compone il dittico, Il 41° uomo, testimone negletto della vicenda dei Santi Quaranta, quaranta legionari romani appartenenti alla Legione Fulminata di stanza in Medioriente, martirizzati per assideramento fra il 320 e il 323.

Seconda piéce:

Melezio Sebastiano Gambero, avvolto in un telo, s’aggira lungo un passaggio, un corridoio, più precisamente un criptoportico. Il pubblico di astanti in tenuta nient’affatto termale è la conferma che quel corridoio non conduce affatto al caldarium a cui anelava. Eppure, ne era sicuro quando vi era entrato, vedeva il vapore, sentiva il profumo di quelle acque calde e speziate. Un’allucinazione, forse, null’altro che un’allucinazione. Ma quando sarebbe entrato in quel corridoio e provenendo da dove? L’uomo, smarrito, prova a ricostruirlo, ma l’unica cosa che gli risulti chiara è il perché si ritrovi lì: è in fuga. È nel prendere coscienza di quella fuga che finisce per rievocare la storia dei Santi Quaranta. L’editto di Milano promulgato nel 313 dall’Imperatore Costantino il Grande, aveva di fatto sancito la libertà di culto, quando Licinio, Augusto d’Oriente, generò una recrudescenza delle persecuzioni cristiane, diremmo oggi, in chiave antioccidentale: intendeva indebolire l’Imperatore, sostenitore dei cristiani, per prenderne il posto. I quaranta legionari cristiani furono chiamati ad apostatare sacrificando agli Dei romani, si rifiutarono e furono condannati alla morte per assideramento tramite l’immersione in una pozza ghiacciata, a Sebaste, in Cappadocia.

Perché il nostro narratore conosce tanto bene i dettagli di questo eccidio? Attraverso quali vie una reliquia di quei quaranta santi è approdata a Benevento? È possibile risalire a chi, fra i quaranta martiri, questa appartenga? No, senza l’impossibile disvelamento del nostro testimone.


Articolo pubblicato il giorno 20 Gennaio 2023 - 19:13


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