

Sono passati dieci giorni dalla morte di Nicola Marra. Una giovane vita andata via che ha lasciato un vuoto incredibile nei suoi amici ma soprattutto nei suoi familiari. Il padre Antonio non riesce a farsene una ragione, a capire e non riesce a credere quanto hanno visto i suoi occhi quel lunedì mattina: giovani stesi sulle panchine, qualcuno per terra, qualcuno vomitare. Antonio da padre non riesce a comprendere il motivo per il quale i giovani d’oggi per divertirsi debbano superare ogni limite. «Li ho visti accasciati sulle panchine, a terra. Li ho visti sorreggersi l’un l’altro e cadere, li ho visti aggrapparsi, li ho visti vomitare. Non era il ritorno da una discoteca, era una mattanza. Ma che mondo è questo se per passare una serata ci si riduce così?» - così come riportato dai colleghi del Corriere della Sera. Tutto quello che successo non ha senso, non ha spiegazione per Antonio che conosceva suo figlio meglio di tutti, tutti che descrivevano Nico come un ragazzo tranquillo, solare, studente modello. Frequentava, infatti, la facoltà di Giurisprudenza con profitto.
«È questo che mi tormenta – dice - Nico a casa non beveva, Nico studiava, faceva sport, viaggiava, aveva gli amici, la fidanzata. E sicuramente sono così anche quei ragazzi che ho visto mentre lo cercavo. Non sono ragazzi difficili, sono ragazzi normali per sei giorni alla settimana, e poi in una sola notte ribaltano tutto. Dedicano se stessi solo allo sballo, bevono come fossero uomini persi. Non so cosa cerchino, non riesco a capirlo e invece vorrei tanto esserne capace. Un padre può essere preoccupato se suo figlio si ammala, se non va bene a scuola, ma non può avere il terrore che suo figlio vada a ballare, non può passare quelle notti nell’angoscia di non vederlo più tornare. Non ha senso tutto questo». Papà Antonio ha affidato il suo sfogo al suo profilo Facebook, scrivendo un lungo messaggio. “Nico è solo stato un estratto a sorte di quella maledetta domenica, come ce ne sono stati tanti e come purtroppo tanti, molti, ce ne saranno ancora. Mio figlio era un ragazzo pazzesco, con un cuore e una mente enorme, con una vita a disposizione ma che gli andava stretta per le tantissime cose che programmava e del quale era il primo realizzatore. La sua giornata non era formata da 24 ore, ma era indefinita, infinita. Il giorno e la notte erano solo un susseguirsi di eventi temporali nei quali cercava a malapena di adattarsi, tanto era preso dagli amici, dallo sport, dal divertimento, dallo studio, dalla famiglia e da tutti coloro che vedevano in lui un riferimento in tutto, forse in troppe cose. La vita voleva viverla, dominarla, controllarla, possederla. Adesso non c'è più, e sto a chiedermi il perché con una domanda che non avrà mai risposte o forse tante. L'ho cercato dappertutto in quelle maledette ore, ma in cuor nostro sapevamo che non l'avremmo mai più rivisto. Avvertiva dei suoi ritardi. Sempre. Ho passato l’intera giornata e anche la notte seguente alla scomparsa di Nico girovagando, da anima dannata, per le stradine di Positano