Il giornalista de 'Il Fatto Quotidiano' Marco Lillo durante la presentazione del suo libro ''Di padre in figlio'' sull'inchiesta Consip. Napoli, 28 giugno 2017. ANSA / CIRO FUSCO
La perquisizione e il sequestro al giornalista Marco Lillo sono illegittimi. La Cassazione accoglie il ricorso del giornalista del Fatto Quotidiano’ che il 5 luglio, nell’ambito di un’indagine sulla fuga di notizie per l’inchiesta Consip, ebbe il sequestro – a casa e in redazione – di materiae informatico e documentale. Lo sottolinea la Cassazione con la sentenza 9989 depositata oggi con la quale gli ‘ermellini’ hanno ordinato la restituzione a Lillo di tutto quello che gli è stato sequestrato, vietando inoltre ai magistrati partenopei il “trattenimento di copia dei dati acquisiti”. Ad avviso della Suprema Corte, con riferimento ai principi in tema di tutela della libertà di stampa fissati dalla Corte dei diritti dell’uomo, la perquisizione e il sequestro sono state due misure sproporzionate adottate nei confronti di un professionista dell’informazione senza che vi fosse un legame probatorio, tra i documenti sequestrati e l’oggetto dell’indagine. Di conseguenza, i supremi giudici hanno disposto la restituzione a Lillo “di tutti i computer, hard disk, pen drive, telefoni cellulari, cd-rom e dvd rom, sequestrati o acquisiti in copia”, e la stessa cosa hanno ordinato per quanto riguarda i documenti cartacei, tra i quali il contratto stipulato da Lillo per la pubblicazione del libro ‘Di padre in figlio: le carte inedite del caso Consip e il familismo renziano’. Affinchè il sequestro sia valido, spiega la Cassazione annullando senza rinvio l’ordinanza emessa ai danni di Lillo, di altre persone a lui vicine, oltre che nei confronti di un altro giornalista del ‘Fatto’, alle quali sono stati sequestrati pc e cellulari, “non è sufficiente affermare che si tratti di atti relativi al libro che ha divulgato al pubblico la notizia segreta presumibilmente rivelata da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio”. “Occorre verificare – prosegue la sentenza scritta dal consigliere Antonio Corbo della Sesta sezione penale – che detti documenti abbiano uno specifico legame con la condotta di rivelazione di segreto di ufficio, in particolare perchè contenenti elementi utili per individuare la provenienza della notizia ricevuta dal giornalista”. In sostanza, nei confronti dei giornalisti più che di ogni altra categoria professionale, per evitare il rischio di “potenziali limitazioni che alla libertà di stampa potrebbero derivare da iniziative immotivatamente invasive”, non possono essere disposte misure di sequestro ‘a strascico’ della corrispondenza, delle comunicazioni, o di ogni altro materiale e documentazione sulla base di un “semplice nesso di pertinenzialità tra le notizie ed il generico tema dell’indagine”.
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