

Napoli, assolti i 4 “scafisti”
Non erano scafisti al soldo delle organizzazioni criminali, ma migranti costretti a mettersi alla guida del barcone per salvarsi la vita. Si è chiuso con quattro assoluzioni il processo di primo grado celebrato a Napoli a carico di quattro rifugiati, provenienti da Sudan e Ciad, arrivati in Italia nel luglio 2024 e accusati di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare.
Secondo l’accusa, i quattro sarebbero stati identificati come i “capitani” delle due imbarcazioni con a bordo in totale 55 persone, soccorse nel Mediterraneo centrale dalla nave umanitaria Ocean Viking.
Appena sbarcati nel porto di Napoli furono fermati e trasferiti in carcere, dove sono rimasti in custodia cautelare per oltre 17 mesi, fino alla sentenza di assoluzione emessa dal giudice partenopeo.
Nel dispositivo, il tribunale ha riconosciuto la sussistenza dello “stato di necessità”, ritenendo che la condotta dei quattro imputati fosse dettata dall’urgenza di salvare la propria vita e quella degli altri migranti a bordo, e non dall’intento di trarre profitto dall’attraversamento irregolare dei confini.
Per le avvocate Tatiana Montella e Martina Stefanile, componenti del collegio difensivo, la decisione rappresenta «una vittoria importante». «Da un lato – spiegano – scardina il paradigma, sin troppo spesso applicato nei tribunali, che equipara il capitano a colui che organizza e lucra sulle traversate, riconoscendo invece le condizioni di necessità che caratterizzano il percorso di ogni migrante in fuga.
Dall’altro lato afferma con chiarezza che i capitani altro non sono che migranti che esercitano la propria libertà di movimento e riconosce la supremazia del bene giuridico “vita e libertà di movimento” rispetto alla mera tutela dei confini».
Sulla sentenza è intervenuta anche una rete di realtà impegnate nella tutela dei diritti dei migranti: Asgi Campania, Clinica legale dell’immigrazione e della cittadinanza di Roma, Clinica legale dell’Università di Parma e Mediterranea Saving Humans.
In una nota congiunta ricordano come i quattro rifugiati avessero già alle spalle un percorso segnato da violenze e privazioni: «Detenuti in Sudan perché si rifiutavano di arruolarsi come soldati bambini, detenuti e torturati in Libia, hanno attraversato il mar Mediterraneo e, dopo essere sopravvissuti a quello che è un luogo di morte per tantissimi profughi, una volta giunti in Italia hanno conosciuto solo il carcere di Poggioreale».
Secondo le organizzazioni, l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare è stata utilizzata in questi anni come «grimaldello per reprimere il fenomeno migratorio», producendo oltre 1300 detenuti nelle carceri italiane, «frutto della repressione della libertà di movimento» e di «politiche repressive e di criminalizzazione».
Nella nota si parla di «indagini piene di falle, spesso figlie di un paradigma accusatorio per cui chi guida perde il proprio percorso individuale e diventa strumento e capro espiatorio di politiche criminali sui confini».
Un approccio, denunciano, che ha trasformato il diritto penale in una «calotta interpretativa» capace di oscurare le cause strutturali delle migrazioni. «Il riconoscimento dello stato di necessità in questa vicenda giudiziaria – sostengono – rappresenta un punto di svolta per superare l’utilizzo di questo reato per colpire la libertà: la libertà di scegliere il proprio destino e la libertà di movimento».