Quando Raffaele Imperiale decise di vuotare il sacco nell’ottobre del 2022, gli investigatori capirono di trovarsi davanti a un testimone chiave, capace di raccontare vent’anni di traffici di cocaina e miliardi di euro transitati tra l’Europa e gli Emirati Arabi.
Imperiale, l’uomo che aveva trasformato la costa napoletana in una delle piattaforme logistiche più sofisticate del narcotraffico mondiale, cominciò a parlare. E dalle sue parole prese forma il cuore economico del clan Amato-Pagano, la macchina che per anni aveva garantito un flusso ininterrotto di denaro e potere.
Il Cafone, il reggente e i 250 chili di cocaina
Nel suo primo interrogatorio, datato 7 ottobre 2022, Imperiale spiegò che i rapporti con gli Amato-Pagano si erano riattivati con la reggenza di Marco Liguori e che, dopo il suo arresto, il comando era passato ad Antonio Pompilio, detto ’o Cafone, suo vecchio amico e uomo di fiducia.
Fu proprio Pompilio – racconta Imperiale – a gestire per conto suo la distribuzione di 250 chili di cocaina, destinati ai clienti napoletani e campani. Un affare milionario che cementava il legame tra il narcos di Dubai e la cupola di Melito.
Ma Imperiale non si limitò a fornire droga. Il suo sistema garantiva anche la gestione finanziaria: il reinvestimento dei profitti, la ripartizione dei guadagni, la copertura societaria.
“Doveva dare ad Amato Raffaele dieci milioni di euro. A Pompilio ntra i tre e i quattro milioni in casa, avevo ancora diciotto milioni di euro" (Raffaele Imperiale verbale del 7 ottobre 2022
Una contabilità parallela, precisa come quella di un’azienda, che si muoveva su più livelli: cash nascosto, criptovalute, società di copertura e prestanome negli Emirati.
I messaggi cifrati e i calabresi di mezzo
Imperiale raccontò anche dei suoi contatti con Pompilio attraverso un sistema telematico criptato di una compagnia svizzera, una piattaforma di comunicazione blindata usata solo per affari di droga. Ma ’o Cafone non si accontentava.
Da Dubai, raccontò Imperiale, Pompilio gli aveva confidato di usare anche un nuovo sistema “dei calabresi”, un software ancora più sicuro, installato pochi giorni prima del suo arresto.Potrebbe interessarti
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Quel dettaglio non era casuale: i calabresi di cui parlava erano fornitori diretti di cocaina, e Pompilio aveva cominciato a trattare con loro per ottenere prezzi più bassi rispetto a quelli di Imperiale.
Imperiale, però, aveva autorizzato la mossa:
“Gli dissi di acquistare pure da loto, usando i soldi che mi doveva. Poi mi avrebbe consegnato il margine di guadagno".
Un gesto che, nella logica dei narcos, non era un atto di fiducia, ma di controllo. Imperiale lasciava spazio ai suoi affiliati solo per tenere il polso dei flussi di denaro.
Il genero “ragazzino” e l’eredità di Amato
Nelle sue dichiarazioni successive, Imperiale svela un altro passaggio chiave: dopo l’arresto di Amato Raffaele, le redini della famiglia erano finite nelle mani di una serie di reggenti e parenti, fino a quando comparve una figura più giovane, il nuovo genero di Amato, fidanzato con la figlia Maria.
Imperiale lo definisce un ragazzo “arrogante e inesperto”, che pretendeva pagamenti aggiuntivi non dovuti. Quando chiese spiegazioni a Pompilio, ’o Cafone rispose che quel giovane “era stato messo lì dopo gli arresti” e che era “sposato o fidanzato con la figlia Maria”.
Un passaggio di poteri interno alla famiglia, dettato più dalla parentela che dal carisma criminale, che però sanciva una continuità: gli Amato restavano i custodi della cassa e dell’onore del clan.
Un impero nel deserto
Nei verbali successivi, Imperiale rivela che durante la sua permanenza a Dubai aveva lasciato 18 milioni di euro “in cassa” a un suo collaboratore, Carbone Bruno, incaricato di gestire i nuovi clienti e mantenere i contatti con gli Amato-Pagano.
Quando Imperiale venne arrestato, fu proprio Carbone a prendersi le redini del gruppo, insieme a Corrado Genovesi. Entrambi, raccontano gli atti, si rivolsero a Pompilio Antonio per riallacciare i rapporti con la cosca di Melito dopo il terremoto giudiziario.
6. continiua






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