Francesco Pio Valda, condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio del 18enne innocente Francesco Pio Maimone, legge in aula dichiarazioni di scuse dopo aver cosnegnato ai giudici, nella scorsa udienza un memoriale di quattro pagina scritto di suo pugno.
Tra lacrime, parole di pentimento e il racconto del carcere, resta l’interrogativo: consapevolezza maturata o strategia processuale?
"Voglio dare un messaggio a tutti i miei coetanei: non vado fiero di quello che ho fatto". Nell’aula 318 del Nuovo Palazzo di Giustizia di Napoli, la voce di Francesco Pio Valda rompe il silenzio del processo di secondo grado. Il baby boss, condannato in primo grado all’ergastolo, chiede nuovamente scusa per l’omicidio del 18enne pizzaiolo innocente Francesco Pio Maimone, ucciso sul lungomare di Napoli nella notte in cui una banale rissa degenerò in tragedia.
Valda prende la parola per rendere dichiarazioni spontanee davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Napoli. "Non avevo il coraggio di chiedere scusa ai genitori, questo era il mio messaggio e chiedo ancora scusa", dice rivolgendosi idealmente alla famiglia Maimone e ai ragazzi della sua età.
Parole che sembrano segnare una cesura con l’immagine del giovane spavaldo, arruolato troppo presto nel sottobosco criminale e trasformato in simbolo di quella deriva giovanile che a Napoli spesso si intreccia con la violenza armata.
Il memoriale presentato nella scorsa udienza
Dietro le frasi lette in aula c’è un memoriale scritto di suo pugno, consegnato alla Corte. Quattro pagine nelle quali Valda ha messo nero su bianco i suoi pensieri dal carcere, racconta le notti insonni, la difficoltà di reggere la vita dietro le sbarre e, soprattutto, la consapevolezza di avere spezzato per sempre la vita di un ragazzo che non aveva alcuna colpa.
Quel documento, già letto nella scorsa udienza, è diventato un tassello centrale nel dibattito processuale e nell’opinione pubblica.
Per la giustizia, Valda resta l’autore del colpo fatale partito durante una rissa nata per un futile motivo: un “pestone” che avrebbe rovinato le sue scarpe griffate. Da un gesto insignificante, un’escalation di violenza che ha tolto la vita a Maimone, 18 anni, pizzaiolo, estraneo al regolamento di conti.
Un omicidio che la stessa accusa ha definito "assurdo" e "inspiegabile", ma che racconta con crudezza la fragilità di un contesto dove l’orgoglio, le apparenze e le armi si mescolano in una miscela micidiale.Potrebbe interessarti
La domanda che oggi accompagna il processo di appello è inevitabile: Francesco Pio Valda sta davvero cambiando? Il carcere – soprattutto per un ragazzo che si è affacciato alla maggiore età già segnato da un omicidio – può essere diventato lo spazio in cui misura il peso delle proprie azioni, comprende la sproporzione tra un paio di scarpe sporche e una vita spezzata, riconosce l’abisso tra la spavalderia di strada e la realtà di una cella.
Le sue parole, il memoriale, il tono con cui pronuncia il suo "non vado fiero di quello che ho fatto" sembrano, per alcuni, il segnale di una presa di coscienza.
Ma in un’aula di tribunale, il confine tra pentimento e strategia è sottile. Altre voci, più scettiche, leggono in questo memoriale un estremo tentativo di ammorbidire il giudizio dei giudici d’appello, di allontanare lo spettro dell’ergastolo, di presentarsi come un giovane smarrito piuttosto che come un baby boss freddo e irredimibile.
Il processo, infatti, non è solo il luogo della verità giudiziaria, ma anche del racconto che ogni imputato costruisce di sé: chi si vuole essere agli occhi dei giudici, dell’opinione pubblica, delle stesse vittime.
Per la famiglia Maimone, le scuse – per quanto ripetute – non potranno cancellare la perdita. Restano il dolore irreparabile, la rabbia per una morte senza senso, la ferita di un lutto che nessuna sentenza e nessun pentimento potranno mai sanare.
E tuttavia, anche per loro, la domanda è inevitabile: è preferibile un colpevole che resta ancorato alla propria arroganza criminale, o un ragazzo che, dentro il carcere, comincia almeno a prendere atto del male compiuto?
Il caso Valda diventa così uno specchio di una questione più ampia: quanto è possibile credere al cambiamento di un giovane cresciuto nella cultura del branco e delle armi? La vita in carcere per un diciottenne, anche se spavaldo, logora, mette alla prova, costringe a fare i conti con sé stessi.
Che questa sofferenza diventi davvero coscienza morale o rimanga solo un calcolo difensivo, lo dirà il tempo, più ancora che la sentenza d’appello.
In attesa del verdetto, restano quelle pagine scritte a mano e quelle parole in aula: "Non vado fiero di quello che ho fatto". Un messaggio indirizzato ai coetanei, ma anche un appello alla pietà dei giudici.






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