Chiara Tramontano, nell’ambito del Campania Libri Festival 2025, la fiera dell’editoria che si è tenuta dal 2 al 5 ottobre presso gli spazi di Palazzo Reale di Napoli, ha presentato il suo romanzo “Non smetterò mai di cercarti. Ogni parola è un passo verso te, Giulia” per la casa editrice Cairo.
"Non smetterò mai di cercarti" è un memoir potente e necessario, un racconto intimo e profondo scritto da Chiara Tramontano, sorella di Giulia, vittima di femminicidio mentre era incinta di sette mesi del piccolo Thiago. La narrazione prende avvio dal 27 maggio 2023, giorno in cui la scomparsa di Giulia segna l’inizio di un dolore incolmabile e di un cambiamento irreversibile nella vita di Chiara e della sua famiglia.
Chiara, mediante una prosa tagliente per la sua autenticità, ripercorre con il pubblico lettore le giornate angosciose della ricerca, la scoperta della verità, il travaglio interiore del nucleo familiare e il lungo percorso processuale che ne è seguito. Il libro non è solo la cronaca di un dolore: è un viaggio nella memoria, un ritorno all’infanzia condivisa con la sorella, ai ricordi fatti di differenze e conflitti ma soprattutto di un amore profondo e indissolubile.
Non si limita a commemorare ma invita a conoscere e ricordare perché il dolore, quando si fa voce polifonica, diventa una base per risvegliare la coscienza di massa e puntare la lente d’ingrandimento sulle emergenze sociali, psicologiche e culturali. La scrittura si riconferma essere un atto eterno e sconfinato di amore, una luce di speranza, un barlume di bellezza nel grigiore delle nefandezze della vita di cui, spesso, persone e famiglie ed innocenti sono vittime.
Chiara si è affidata alla forza della parola scritta per mutare una tragedia personale in un atto di resistenza universale e di amore incondizionato come motore per resistere, ricordare e impegnarsi socialmente nelle battaglie all’arginamento della violenza di genere. Chiara racconta la propria trasformazione dopo la tragedia: dalla discesa nell’abisso della sofferenza alla lenta ricostruzione di sé, dallo sconforto inconsolabile alla certezza interiore che Giulia continua a vivere nella presenza invisibile ma costante dei legami che non si spezzano.
Centrale è anche la riflessione sul perdono negato, sulla difficoltà di lasciar andare senza dimenticare, e sul senso di colpa che spesso accompagna chi resta. Il libro si conclude con una lettera toccante alla nipote, anch’essa chiamata Giulia in memoria della zia, nella quale l’autrice intreccia ricordi e speranze, trasformando la mancanza in un’eredità d’amore e consapevolezza.
La Tramontano, quindi, ha raccontato le difficoltà nel raccontare per iscritto una storia così intima, descrivendo le varie fasi del suo processo di scrittura. “Le difficoltà sono state davvero tante – ha spiegato – Innanzitutto volevo raccontare il dolore della mia famiglia, però come potevo raccontarlo senza che loro sapessero il contenuto? Come si racconta il dolore di qualcuno in un modo che non diventa troppo debole agli occhi degli altri?
Io non volevo dare alla mia famiglia l’idea di una famiglia debole, non volevo che apparissimo come vittime di questo crudele male. Io odio quando le persone mi guardano con gli occhi di chi sa che sono morta dentro, che sono spezzata, perché io cammino, io vivo. Non volevo che trasmettesse questo – ha puntualizzato - Volevo raccontare questo dolore ma farlo in un modo che non offendesse la sensibilità di nessuno di quelli che viene raccontato.
La seconda difficoltà e paura era quella di essere criticata, nel modo più semplice. Temevo proprio che l’opinione pubblica pensasse che fossi una, e probabilmente non lo sono, di quelle tante vittime che ha scritto un libro e che dal giorno all’altro si è svegliata “vincitrice”. Probabilmente non lo sono. Per me però è importante: ho una nipote che è nata il 2 ottobre. Io volevo che tra dieci o quindici anni, quando lei sarà pronta, avesse preso una sentenza scritta a lino più bianco di un articolo di giornale, che non dà fede a sua zia, e che lei potesse sapere perché”.
Attraverso le sue parole, l’autrice ha restituito ai lettori l’essenza di Giulia come donna e come persona, offrendone un ritratto che ne ha esplicato la pienezza del carattere, la sensibilità e la vitalità. Il ricordo ha preso forma tra dolore e tenerezza, tra la rabbia e la dolcezza di un sorriso che riaffiora nel rievocare gli aneddoti della sua vita. Ne è emersa così una raffigurazione capace di andare oltre l’algidità delle cronache e di restituire la profondità di una soggettività irripetibile.
Il libro è nato da una convinzione profonda, più volte ribadita da Chiara Tramontano: l’opinione pubblica non deve cadere nella tentazione di ridurre una donna vittima di femminicidio al suo tragico destino. Prima di tutto, tali donne sono state persone con una storia, sogni, passioni e talenti. Donne forti, determinate, con una personalità viva e indipendente, la cui vita è stata spezzata da una spirale di violenza spesso subdola e invisibile.
Attraverso il racconto, Chiara ha invitato a riflettere sulla necessità di uno sguardo più consapevole e meno superficiale: perché la violenza non sempre si manifesta apertamente ma al contrario si insinua in modo graduale, ambiguo e silenzioso. La violenza, purtroppo, non esula nessuno e in tali prigioni invisibili, senza riuscire a prenderne subito contezza, potrebbe trovarsi chiunque: per questo bisogna analizzare tale fenomeno con grande sensibilità, empatia e criticità.
Imparare a riconoscere la violenza e nominarla è il modo per evitare che altre vite, come quella di Giulia, vengano travolte da un destino ingiusto. A tal proposito, ha spiegato Chiara: “In questo soprattutto volevo che non perdesse Giulia. Io racconto di Giulia come di una donna che ha un amico che viene da un assassino. Non vado mai nei dettagli di questa storia. È una storia in cui cerco di non mettermi in prima luce, ma al tempo stesso la donna è una donna.
È proprio un’amica mia. Però come raccontare Giulia in modo che non pensino di lei che sia stata una stupida, che abbia avuto i prosciutti sugli occhi, che non abbia voluto vedere, che non abbia voluto farsi aiutare? Questa è stata per me la difficoltà più grande. Volevo che le persone sapessero che lei è una cazzuta, è una che ti mette nella tasca. Il problema è che il male in quel caso non ha urlato.
La violenza non ha avuto nessun segno, era latente, era come un veleno sciolto in una tazza di tè, era in tutte le altre mancanze. Raccontare di lei e della grande ammirazione, il problema maggiore è stato questo. Ho dovuto trovare un buon compromesso, perché il racconto di una donna vittima di femminicidio è il racconto di una donna forte. Non tutti si aspettano che donne vittime di femminicidio siano donne cazzute, non siano stupide, non si siano fatte uccidere per amore.
Questa è stata la prima difficoltà”. Spesso, l’obiettivo nel mirino di tali soggetti malintenzionati sono proprio le donne autonome e brillanti, perché – come ha sottolineato la Tramontano – al giorno d’oggi vi sono retaggi e riecheggiamenti maschilisti troppo efferati che non riescono a convivere con serenità con l’intraprendenza, il vigore e la lucidità femminile.
“Viviamo un’emergenza sociale e relazionale, perché ad oggi sono proprio i compagni di vita, coloro che dovrebbero amare, proteggere e sostenere le loro donne nei loro percorsi, nelle loro difficoltà e nei loro traguardi, a svalutare, a guardarle con invidia o percepirle come una minaccia. Proprio coloro che dovrebbero proteggerle, le feriscono e le demoliscono in modo incontrovertibile”.
Chiara ha poi rivelato la reazione della famiglia Tramontano nell’apprendere della realizzazione di questo libro: “Non gliel’ho fatto vedere prima. Penso che non conoscessero neanche il titolo, solo mio padre perché mi aveva aiutato con i processi burocratici, quindi sapeva il titolo. Mia mamma l’ha letto in un giorno, poi ho ricevuto un messaggio WhatsApp.
Io vivo a Orlando, quindi mi ha scritto su WhatsApp in un modo che soltanto noi potevamo fare, perché finalmente aveva trovato una forma pubblica, una voce, e che era contenta perché come genitore si commettono degli errori. E io avevo saputo raccontare della mia famiglia negli errori ma anche nei tratti. Non volevo raccontare di una famiglia perfetta, perché non lo è stata.
Anzi, mi hanno fatto calare la schiena per poterci far studiare all’estero e hanno raccolto le visioni dei nostri successi e mi hanno mostrato un sorriso ogni volta per poi ritrovarsi a compiangere davanti ad una lapide, un fiore, una figlia che non c’è più.Potrebbe interessarti
La prima pietra di Giuseppe Puorto: il thriller che svela i misteri nascosti della Reggia di Caserta
Castellammare: l’Associazione Achille Basile – Le ali della lettura, presenta "In fondo alla cisterna"
Forcella, il nuovo Giallo-Jazz di Marco Zurzolo: un’avventura napoletana tra musica e mistero
Apri gli occhi", il 3 agosto a Procida il libro di Giuliana Covella
L’ha letto e mi ha anche detto che forse sono un po’ troppo severa con i miei avvenimenti di Senago. Posso mandare un messaggio al comandante per dire che è negli alzamenti. Però anche in questo sono grata sia al comando dei carabinieri perché solo in tre giorni mi hanno comunicato che non ho più una sorella. Ma sono arrabbiata per tante altre cose.
Quindi è anche un libro che spero non abbia offeso nessuno, ma racconta del dolore che si trasforma in tante cose: in rabbia, in un senso di giustizia perenne che vivo tutti i giorni e che in un modo o nell’altro non so neanche come comparare più la credibilità. Però è un libro sincero”.
Un racconto di grande sincerità nell’affrontare ogni tematica celante ed evidente della vicenda, così come l’aspetto del perdono, su cui si è espressa scevra di mezze misure e, confermando, la grande dignità e lucidità con cui ha affrontato e sta affrontando tale battaglia: “Amore significa anche perdono, è una di quelle cose di cui ero certa. Ma ciò che mi lascia senza parole è l’attitudine incredibile dei miei genitori. Nel libro parlo di perdono: non c’è spazio per il perdono in questo corpo che contiene a malapena il mio strazio.
Chi mi parla di perdono non capisce che questo colore è diventato parte di me come un organo vitale, come il sangue nelle vene. È il mio modo di mantenere vivo il legame con mia sorella, di adorare la violenza della sua assenza. Lascio volentieri ad altri la grazia della fede, la consolazione di affidare a un’identità superiore il peso di questa sofferenza. Il perdono spesso è anche collegato alla fede.
Penso che magari sia anche legato al concetto di sapere che l’altra persona non intenzionalmente ha causato dolore. Io sono una persona pronta: se mia sorella fosse morta investita da un anziano o da un qualsiasi individuo che, in uno stato di possibilità alla guida, non si è accorto che mia sorella attraversava la strada e pertanto anche lui fosse in uno stato di pena e di dolore per aver causato la morte di qualcuno, io mi aprirei al perdono.
Perché sapere che una persona soffre e che anche io soffro per una stessa cosa ma non c’è alcuna comunicazione crea soltanto un divario umano che non vorrei. Ma in questo caso non c’è neanche la possibilità di parlare di perdono, perché il dolore è stato causato intenzionalmente da una persona che aveva appunto un suo scopo, per poi addirittura disperdere tutto ciò che prima apparteneva a mia sorella, che io non ho potuto salutare. Quindi è una storia che reca così tanto dolore ed è qualcosa su cui devo lavorare così tanto per poter sopravvivere.
Come potrei pensare di avere il tempo di perdonare? Non ho il tempo, non ho la voglia, non ho la forza, non ho il compito di sollevarti dal peso del tuo dolore e di dare la grazia a qualcuno di sapere che è stato perdonato. Io non ho nessuno che mi solleva dal mio peso. Il peso del mio dolore lo ricordo sempre. Pertanto, non lo riesco a sollevare da me e non cercherò di sollevare altri dal dolore di ciò che hanno fatto”.
Chiara, all’interno del testo, ha raccontato un aneddoto in particolare, quello di un braccialetto, in cui emerge il filo invisibile ma indistruttibile che la lega a Giulia, quelle coincidenze che donano a Chiara e alla sua famiglia la forza e il coraggio di affrontare la vita con la consapevolezza che Giulia non li abbandonerà mai, trasformando la loro perdita in una fonte di resilienza.
“Lo racconto sempre in modo sobrio, però lo racconto perché so che mio padre ci crede. La mia famiglia si è legata al Senato per il conferimento della cittadinanza onoraria e dell’Ambrogino d’Oro. Prima di prendere parte a questa manifestazione il Comune di Senago l’ha invitato a vedere una delle sale dove loro hanno raccolto oggetti che sono stati depositati a via Monterosa, dove è stato trovato il corpo di Giulia.
“Nel corso del primo anno c’erano tantissimi peluche, giocattoli, lettere che il Comune di Senago ha gradualmente raccolto nel tempo e portato in una stanza. Questa stanza era a tutto livello, c’erano delle scale da fare e sono state percorse più volte perché c’erano più oggetti da portare.
Nell’ultimo atto in cui hanno portato gli ultimi oggetti da questa stanza a sopra è volato un braccialetto con un significato religioso e un’iconografia religiosa. Mio padre pensava appartenesse a qualcuno che si trovava davanti. L’ha raccolto dalle scale, ne ha fatto una collana e ha pensato che fosse solo un modo per mia sorella di dire: “Non state facendo questo da soli oggi, ma ci sono anch’io”.
Così come ho raccontato che mia nipote Giulia è nata il giorno degli angeli, l’11 ottobre, all’ospedale di Frattamaggiore. La mamma di Giulia ha avuto un travaglio piuttosto lungo; quindi, ha avuto modo di comunicare un po’ con la sua compagna di stanza che era una giovane donna. Si sono scambiate due chiacchiere. La mamma di Giulia ha chiesto all’altra donna: “Allora tu cos’hai? Maschietto o femminuccia?”. “Maschietto”. “E come si chiama?”. “Tiago”. Io non sono religiosa però so che Giulia mi fa compagnia in questa vita. Il modo in cui lo faccio non lo so”.
Ad oggi, Chiara è una giovane donna e ricercatrice accademica che cerca di condurre con trasparenza e a testa alta la sua vita, lottando ad oltranza per far sì che storie come quelle di sua sorella Giulia non vengano dimenticate e, soprattutto, non vengano vanificate ma fungano da monito. Cerca, al contempo, di andare avanti nel corso dell’esistenza con interezza, facendo in modo che la sua persona non venga confinata in questa vicenda ma che possa ancora esistere in quanto tale, portando avanti i suoi progetti.
Proprio per tale motivazione, ha motivato le cause per cui non tornerà a fare, almeno per il momento, ricerca in Italia: “Ho conseguito il dottorato di ricerca Napoli e poi ho applicato per una posizione in Israele come persona che inizia la carriera accademica al Technion di Haifa, dove ho vinto questa posizione a giugno. Mi hanno comunicato di aver vinto e mi volevano in Israele.
Ho iniziato questa posizione in Israele ma è stato un periodo di totale guerra con Haifa; quindi, anche a maggio quando mi trovavo lì hanno lanciato i 200 razzi. È stato il motivo per cui poi a un certo punto ho deciso di interrompere questa catena. Ho incontrato un altro professore che mi disse: “A me farebbe piacere se venissi nel mio laboratorio, noi ci occupiamo di cancro”.
E lui mi disse: “Guarda, facciamo una catena di questa tecnologia”. Ho un po’ perso la voglia di diventare professoressa dopo tutti questi anni, però terminerò questi due anni e forse vorrò andare in azienda, dove magari svilupperò davvero qualcosa per curare le persone, o rimanere nell’ambito accademico – ed ha proseguito, avviandosi a conclusione - Sono andata via dall’Italia quando Giulia se n’è andata.
Io ero un lavoratore di tecnologia a Genova, ma ero diventata soltanto la sorella di Giulia. Questo adesso mi aiuta per ricordare la memoria di Giulia, bene che adesso le persone sappiano chi sono. Ma quando sei un ricercatore vuoi che i tuoi risultati scientifici appaiano sul web prima del tuo nome. Se io digito “Chiara Tramontano” su internet escono soltanto le notizie del processo di Giulia.
Questo ha iniziato ad essere un problema in Italia per me, quindi sono andata via. In realtà adesso il processo di Giulia ha avuto anche un grande interesse internazionale. Cerco sempre un po’ di vivere la mia vita lavorativa senza questa influenza della mia storia. Non credo che ritornerò in Italia come professione. Magari mi muoverò ancora, forse in Svizzera, perché geograficamente è più vicino all’Olanda”.
Emanuela Francini
Lascia un commento