Cronaca Giudiziaria

Camorra, perché la confessione "tardiva" non è bastata al giovane boss Salvatore Barile

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La confessione che non ha salvato Totoriello:non è bastato il lungo memoriale di confessione, né l’ammissione piena di colpe. Salvatore Barile, detto “Totoriello”, 41 anni, ras del rione Sant’Alfonso e nipote dello storico boss Vincenzo Mazzarella, è stato condannato anche in appello a trent’anni di reclusione per l’omicidio di Salvatore Lausi, conosciuto come “Pirulino”.

L’agguato risale al 6 ottobre 2002, in via Vergini, nel cuore del rione Sanità. Barile aveva deciso di confessare tutto, forse sperando in un trattamento più mite, come ormai accade con sempre maggior frequenza tra gli uomini d’onore che, una volta messi con le spalle al muro, scelgono la strada dell’autoaccusa. Ma la sua strategia non ha avuto effetti premiali.

"Volevo essere come mio zio"

Nel memoriale depositato davanti ai giudici, e riportato da Il Roma, Barile racconta la sua ascesa criminale e il peso del cognome che porta:

"Essendo il nipote di Vincenzo Mazzarella e provando un’adorazione per mio zio, volevo stare vicino a lui e seguire la sua strada".Una strada segnata da sangue e fedeltà claniche, che nel 2002 lo portò a partecipare a un omicidio eccellente.

Nel suo racconto, Totoriello ricostruisce l’ultima giornata di “Pirulino”: "Quel giorno Ciro Spirito mi disse: "ora vieni tu con me". Dissi subito di sì e ricordo che mi mise la mano sul petto, come per sentire i battiti. Rise e disse "andiamo".

Accettai senza forse rendermi conto fino in fondo della gravità di ciò che stavo per commettere, ma finalmente sarei entrato anche io nel clan guadagnandomi rispetto e considerazione.

Il battesimo di sangue

Barile aveva alle spalle piccoli reati e un periodo in istituto minorile. Uscito nel 2000, cercò di farsi notare dagli uomini del clan: "Da quel momento ho iniziato a cercare di avvicinarmi alle persone del clan senza percepire uno stipendio e senza essere considerato un affiliato".

L’occasione arrivò nell’ottobre del 2002. Secondo la sua versione, il movente dell’omicidio fu una questione di fedeltà tradita: "Mio zio decise di uccidere Lausi perché faceva il doppio gioco tra i Mazzarella e i Misso".

Il contesto era quello di un fragile equilibrio tra clan in lotta per le piazze di spaccio del centro storico di Napoli. Con l’arresto di Michele Mazzarella nel 1999, Lausi aveva assunto un ruolo di primo piano, finendo per legarsi ai Misso e sottrarre loro alcune piazze. Per questo fu condannato a morte.

Barile descrive con freddezza l’agguato: "Si avvicinò a piedi a Lausi ed esplose numerosi colpi. Dopo aver sparato, tornò da me, salì sullo scooter e mi misi alla guida verso via Foria".

Una verità tardiva

L’omicidio di “Pirulino” rimase irrisolto per oltre vent’anni, fino a quando nel marzo 2023 gli investigatori riuscirono a ricostruire il quadro dell’agguato, portando all’arresto di Barile e del cugino Michele Mazzarella.

Il memoriale del giovane boss, dettagliato e autoaccusatorio, non ha tuttavia convinto i giudici. Né in primo grado né in appello è stato riconosciuto alcun attenuante.

Una strategia che non paga sempre

Negli ultimi anni si è fatta strada, nei processi di camorra, la tendenza dei ras e dei gregari a redigere memoriali-confessione, sperando di ottenere sconti di pena o un’immagine più collaborativa davanti ai tribunali. Ma, come dimostra il caso di Totoriello Barile, la sincerità non basta quando arriva tardi e non si accompagna a una reale collaborazione con la giustizia.

Per lui, come per altri boss “pentiti a metà”, la confessione è rimasta un atto isolato, insufficiente a cambiare la sentenza: trent’anni di carcere confermati anche in appello.

RIPRODUZIONE RISERVATA Articolo pubblicato il 29 Ottobre 2025 - 10:50 - Giuseppe Del Gaudio
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Giuseppe Del Gaudio