Nella foto l'avvocato Vincenzo Sangiovanni
Napoli – Emergono dettagli inquietanti dalle intercettazioni dell’inchiesta che ha portato a 45 misure cautelari tra San Giuseppe Vesuviano e comuni limitrofi per la truffa sui migranti.
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Dalla lettura delle 320 pagine dell’ordinanza cautelare firmata dalla gip Maria Laura Ciollaro, su richiesta della Dda di Napoli oltre ai tre avocati arrestati Vincenzo Sangiovanni (42 anni), indicato come il promotore del sodalizio, Gaetano Cola (37 anni)
Aniello Annunziata (39 anni e al poliziotto Mario Nippoli, in servizio al commissariato di Poggioreale e finito ai domiciliari, emerge la figura inquietante di un altro agente di polizia in servizio al commissariato di San Giuseppe Vesuviano.
L’uomo è indagato in una inchiesta sulla camorra e sul clan Fabbrocino e di lui ne ha parlato anche il pentito Rosario Giugliano, o’ minorenne, ex boss di Poggiomarino. Un dialogo intercettato rivela come l’affare illegale sul business dei permessi ai migranti da oltre un milione di euro, gestito dal poliziotto e dall’avvocato Vincenzo Sangiovanni, indicato come il capo promotore dell’organizzatori di truffatori, avesse attirato l’attenzione della criminalità organizzata, portando a un tentativo di estorsione.
Il poliziotto, però, con una mossa audace, sarebbe riuscito non solo a ridurre le pretese dei clan, che aveva chiesto 100mila euro, ma anche a intascare una parte del denaro destinato ai criminali.
Secondo quanto ricostruito attraverso le conversazioni intercettate, l’enorme portata degli illeciti guadagni – stimati tra 1 milione e 400mila e 1 milione e 500mila euro – non era passata inosservata alla camorra locale. I clan avevano chiesto una tangente di 100mila euro all’avvocato coinvolto nell’affare.
È qui che entra in gioco la presunta astuzia del poliziotto. Nel dialogo intercettato, uno degli interlocutori (un altro poliziotto in servizio sempre a san Giuseppe Vesuviano) racconta come il collega sia intervenuto direttamente, trattando con i camorristi e riducendo le loro pretese a soli 10mila euro.
Tuttavia, poi lo stesso avrebbe poi fatto credere all’avvocato socio in affari che la somma da versare fosse di 30mila euro, intascando così la differenza di 20mila euro a danno dello stesso complice.
La vicenda, ricostruita nel dettaglio dalle intercettazioni, rivela il cinismo e la disinvoltura con cui venivano gestiti gli affari illeciti e i rapporti con la criminalità. In un passaggio del dialogo tra i due poliziotti, emerge persino lo sdegno (o la simulazione di esso) per la situazione e per il comportamento del collega indagato: “la cosa che a me mi ha fatto male, mi ha ferito ‘ci avete pagato la tangente, eh la Polizia, voi ci avete pagato la tangente il collega tuo me li è venuti a portare’ e mi sentii male lo io non ho voglia di fare niente più per queste vicissitudini, però a sentire che io poliziotto sono andato a pagare la tangente ad un camorrista mi sono sentito male perché io che ho pensato in un determinato modo e ho fatto determinati tipi di lavoro poi a sentire che sono andato a pagare l’estorsione capito?”.
La conversazioni tra i due agenti, uno dei quali riferisce del racconto fattogli da un uomo del clan Fabbrocino, getta un’ulteriore ombra sull’infiltrazione criminale e sulla corruzione che permeavano il sistema, evidenziando la profondità di un business che generava profitti ingenti a costo di gravi illeciti.
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