Si chiude con una sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione, con l’esclusione dell’aggravante mafiosa, il processo a carico di 11 persone accusate a vario titolo di intestazione fittizia di beni riconducibili al killer dei Casalesi Giuseppe Setola.
Questo il verdetto pronunciato dal collegio presieduto dal giudice Giovanni Caparco, del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, al termine del processo che ha visto alla sbarra con il capo dell’ala stragista del clan suo fratello Pasquale, la sorella Immacolata; sua moglie Stefania Martinelli; Massimiliano, Francesco e Cipriano Pagano, titolari della General Impianti; Lucia Caterino; Mario, Emilio, Giovanna, Lucia e Fortunata Baldascino; Domenico Massaro; Antonietta D’Aniello; Salvatore D’Aniello; Giovanni Diana, Giovanni Visone ed Annamaria Serao.
Secondo la tesi iniziale dell’Antimafia la sorella del boss, insieme al marito Mario Baldascino, avrebbero acquistato beni per un valore superiore rispetto al loro reddito familiare ritenuto sufficiente appena alla sopravvivenza. Per quanto riguarda la General Impianti, invece, secondo la Dda sarebbe stata intestata fittiziamente ai Pagano da Pasquale Setola, con la sede della società che venne mantenuta addirittura presso la sua abitazione. Una tesi che man mano ha vacillato nel corso del processo con lo stesso pm della Dda che aveva chiesto, al termine della sua requisitoria, una sentenza di non luogo a procedere per tutti gli imputati, con l’esclusione dell’aggravante mafiosa.
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