Palerno – Giovanni Brusca, il boss di San Giuseppe Jato che azionò il telecomando nella strage di Capaci e ordinò lo scioglimento nell’acido del piccolo Giuseppe Di Matteo, è da oggi un uomo libero.
Lo scorso 31 maggio, l’ex mafioso ha terminato la misura della libertà vigilata, estinguendo ogni suo debito con la giustizia dopo 25 anni di detenzione.
Brusca, che iniziò a collaborare con la giustizia subito dopo il suo arresto, ha completato il suo percorso di riabilitazione legale. Sebbene continui a essere scortato dal Servizio centrale di protezione, che ne monitora ogni movimento, la scadenza dei quattro anni di libertà vigilata ha eliminato tutti gli obblighi residui.
Questo significa che Brusca non è più soggetto all’obbligo di permanere in casa dalle otto di sera alle otto del mattino, né di firmare tre volte alla settimana presso la caserma dei Carabinieri del luogo in cui risiede.
La notizia della sua piena libertà, sebbene con un effetto pratico inizialmente “labile” a causa della scorta, ha un notevole impatto psicologico. L’ex boss, responsabile di alcuni dei crimini più efferati della storia mafiosa italiana, potrà ora muoversi liberamente, pur sotto la vigilanza.
Solo quando terminerà anche la scorta, sarà in grado di spostarsi “dove e come vorrà”. La vicenda riaccende il dibattito sulla giustizia e sul percorso dei collaboratori, generando inevitabilmente reazioni diverse nell’opinione pubblica e nelle vittime delle sue atrocità.
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La liberazione di Brusca è un argomento molto discussso. Molti si chiedono se sia giusto che una persona che ha fatto tanto male possa riavere la libertà dopo cosi poco tempo. È un tema complesso.
Io credo che la giustizia debba essere equa e che i collaboratori dovrebbero essere giudicati con più severità per i loro reati passati, specialmente in casi come questo.
È incredibile pensare che dopo tutto quello che ha fatto, ora possa circolare liberamente. La società deve riflettere su come trattiamo chi ha causato tanta sofferenza.