Napoli, il Far West al Pellegrini: dovevano morire perché amici del boss Saltalamacchia

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napoli. Dovevano morire perché erano ‘amici’ del boss Eduardo Saltalamacchia, in carcere per estorsione ma pur sempre presente sul territorio con il suo esercito di fedelissimi. Ecco lo scenario nel quale per gli inquirenti é maturato l’agguato ai danni di Vincenzo Rossi e l’irruzione all’interno del pronto soccorso dell’ospedale Pellegrini a Napoli il 17 maggio scorso, quando furono sparati diversi colpi di pistola contro il gruppo di persone che aveva soccorso il ferito portandolo nel nosocomio. Pochi mesi sono bastati ai carabinieri per ricostruire il movente del raid anche se, come scrive il gip Maria Laura Ciollaro nell’ordinanza di custodia cautelare che ha raggiunto Giuseppe Iaselli, Vincenzo D’Avino e Arturo Picco, “non vi è certezza assoluta”. Perché ci sono stati tentativi di confondere le acque di persone ascoltate come teste informato dei fatti, che hanno raccontato cose diverse. Come la fidanzata di Iaselli, che ha riferito che alla base c’era un litigio banale tra il suo compagno e Rossi per motivi di gelosia. Un altro invece che alla base c’erano apprezzamenti di Iaselli alla fidanzata di Rossi. Inoltre al pronto soccorso le forze dell’ordine interrogarono i presenti e raccolgono di un motivo ancora più banale, ovvero la rabbia di D’Avino che non trovava le chiavi della moto in piazzetta Matilde Serao. “C’e’ una sproporzione tra l’azione di fuoco e i moventi raccontati dalle persone informate sui fatti”, annota il gip. In realtà, dietro un episodio eclatante persino per le cronache napoletane, ci sono i contrasti per la gestione delle piazze di droga dei Quartieri Spagnoli. Da una parte i Saltalamacchia cui Rossi è legato (e non a caso tra i soccorritori c’é un nipote del capoclan), e il gruppo di Vincenzo Masiello, detto cucù, cui sono vicini Iaselli, Picco e D’Avino. Sullo sfondo, le fibrillazioni nei Quartieri Spagnoli dopo la scarcerazione nell’aprile 2018 del boss Ciro Mariano, un tempo ras della zona in armonia con altri gruppi con i quali divideva territorio e proventi di molte attività illegali, dal 2015 a capo di un clan in declino per arresti e pentimenti eccellenti, ora costretto a cedere pezzi di potere e business illegali ad altri gruppi. I tre giovani arrestati per avere gambizzato un ragazzo, il 17 maggio scorso, e per avere sparato contro i suoi soccorritori, all’interno dell’ospedale Vecchio Pellegrini di Napoli, hanno agito “con un gesto eclatante e plateale, a scopo dimostrativo, per affermare il proprio potere criminale”. Lo sottolinea il gip di Napoli Maria Laura Ciollaro, nell’ordinanza di custodia cautelare . Per il gip inoltre, il luogo dove si sono verificati i fatti, in prossimità di piazza Trieste e Trento, a Napoli, a pochi passi da piazza del Plebiscito, salotto turistico del capoluogo partenopeo, di notte diventa ritrovo “di soggetti gravitanti nella criminalità di Quartieri Spagnoli”. Per mettere a segno il raid in ospedale, Picco e D’Avino si infilano dei pantaloni lunghi bianchi, sopra quelli indossati, e con casco integrale e spolverino lungo nero, dopo avere tolto la targa al motorino, arrivano nel pronto soccorso dove D’Avino spara contro i soccorritori della giovane vittima, “incuranti – scrive ancora il gip – della presenza del presidio armato della vigilanza privata” evocando “la forza di intimidazione e il dominio” tipico delle organizzazioni mafiose. La vittima, Vincenzo Rossi, riporto’ una prognosi di 70 giorni per “ferite d’arma da fuoco agli arti inferiori con frattura pluriframmentaria biossea”. Tra i soccorritori, cinque in tutto, figura anche un minorenne.




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